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Femminismo e censura al museo di Manchester

Di Fabio Benincasa

Il museo di belle arti di Manchester ha deciso di ritirare dall’esposizione il dipinto Ila e le ninfe (1896) del preraffaellita John William Waterhouse. Clara Gannaway, curatrice del museo, sostiene che non si tratti di censura, ma di un tentativo di avviare una discussione attorno al tema della femminilità. L’approccio è vagamente femminista; infatti, secondo la curatrice, il titolo della stanza dove è esposto il quadro Alla ricerca della bellezza tende a dare una dimensione reificata del corpo delle donne, celando dietro al mito del femminino e della sua bellezza perturbante un desiderio di possesso tipico dello sguardo maschile.

Subito è emerso il sospetto che dietro l’operazione non ci fosse una reale volontà di approfondimento e dibattito, quanto piuttosto un’astuta mossa di marketing per far parlare del museo e della mostra dell’artista Sonia Boyce. La polemica appare fuori fuoco in modo elementare. Poco importa quali fossero le reali intenzioni della Gannaway, ciò che conta è come la rimozione del quadro sia stata recepita dal pubblico. Se lo scopo era quello di suscitare un dibattito o creare un’azione artistica a partire dall’assenza dell’opera, bisogna dire che l’impresa è almeno parzialmente fallita.

Alcune foto mostrano che il giorno stesso della rimozione dell’opera di Waterhouse, attorno al cartello che annunciava le motivazioni del gesto, erano stati affissi decine di post-it, predisposti dalla curatrice, perché il pubblico potesse commentare l’atto. La maggior parte dei messaggi però erano insulti verso il museo e accuse di affronto all’arte con richieste di rimettere l’opera al suo posto. In ambito social l’effetto non è stato migliore.

Se l’assenza del quadro, sostituito dal cartellone e dai messaggi ha una sua forza iconografica come immagine effimera e installatoria, andando nei contenuti non c’è la possibilità di alcun approfondimento sul corpo femminile. Con un prevedibile slittamento si è scatenata piuttosto un’ansia iconofila contro una supposta censura, la cui liceità o meno è diventata immediatamente il vero oggetto del contendere.

Quella che è stata immaginata, oltre che come mossa di marketing, anche come provocazione progressista, è stata al contrario interpretata come un atto di pruderie vittoriana o addirittura totalitario. Nell’interpretazione dei commentatori più conservatori si è innescata la solita equazione femminismo uguale autoritarismo. Certo si tratta di un’operazione di marketing maldestra che non lascerà molte tracce di sé nel dibattito sull’arte o sul corpo femminile, ma soprattutto è la dimostrazione che imporre a un’operazione performativa contenuti, anche ben intenzionati, non significa riuscire a raggiungere il pubblico che anzi si fa portatore delle proprie istanze rispetto all’opera d’arte.

I nudi accademici dei preraffaelliti, che per gli storici dell’arte non sono degli apici artistici, per il pubblico costituiscono una specie di avanguardia di un gusto da difendere dalla censura. Waterhouse è dunque diventato un simbolo a prescindere dal suo valore artistico, l’improvvido atto censorio gli ha assegnato così un’aura di artisticità trasgressiva.

(Articolo tratto dalla rivista Formiche N° 139)

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