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Da Paolo VI a Francesco, l’evoluzione di una Chiesa che si fa dialogo

pell iom paolo vi becchetti

Se tutti associano il Concilio Vaticano II al papa che lo ha convocato, nessuno può negare che il papa che è riuscito a fare di quel Concilio il più grande evento ecclesiale, e probabilmente culturale, dell’epoca moderna è stato Paolo VI. Così parlare di lui oggi vuol dire parlare di un’impresa che in gran parte è ancora da compiere, nella scoperta di cosa voglia dire “Chiesa che si fa dialogo”. Dei tanti documenti di Paolo VI è proprio quel documento dove si parla di Chiesa che si fa dialogo, l’”Ecclesiam Suam”, il più attuale, nel senso di inerente al futuro. Le grandi dichiarazioni conciliari, come la Nostra Aetate, quella che riscopre la fratellanza con gli ebrei dopo anni terribili e che fonda il dialogo con le altre grandi religioni, a cominciare dall’Islam, le grandi encicliche più citate, come la “Populorum Progressio”, non sono certamente da meno, ma nulla può fare ombra a un documento fondante come “Ecclesiam Suam”.

Nel giorno in cui Paolo Vi rinunciò per sempre alla tiara del triregno, simbolo del tempo in cui il papa si riteneva padre dei re, rettore del mondo e Vicario di Cristo, è cominciato quasi inosservato il grande cammino che oggi vede un altro papa invocare una Chiesa che sia ospedale da campo, una Chiesa in uscita, una Chiesa che sia nei crocevia della storia. Quest’ospedale nella visione di chi ci crede davvero non diventerà mai una struttura con reparti, primari e strutture, perché in un’ottica conciliare la Chiesa o è ospedale da campo o non è Chiesa. È una Chiesa che vive nella storia, accanto a noi e come noi, non al di sopra e al di là della storia.

La storia cominciata nel giorno dell’abbandono della tiara del triregno non piace ai tanti odierni teorici di “chiese patriottiche”, pronti a sfilare con gagliardetti e incensare leader, presidenti o riass. La storia di cui parliamo infatti ha nella misericordia la sua unica “arma segreta”, che sarebbe capace di mettere in crisi terrorismi, fondamentalismi, integralismi, e sovente lo fa.

È questa grande storia che Paolo Vi ha saputo accompagnare, elaborare, presentare al mondo con i grandi messaggi di chiusura del Concilio. I documenti conciliari predisposti dalla Curia Romana vennero riposti dai padri conciliari nel cassetto delle anticaglie e proprio il giorno in cui, dopo aver ascoltato l’intervento del patriarca melchita, Paolo VI depose quella tiara per mai più riprenderla è cominciata l’avventura, il nuovo cammino. Aprendo il Giubileo della misericordia a San Pietro il papa che avrebbe trovato finalmente il modo di dichiarare santo Paolo VI, Jorge Mario Bergoglio, ha detto: “ Oggi, qui a Roma e in tutte le diocesi del mondo, varcando la Porta Santa vogliamo anche ricordare un’altra porta che, cinquant’anni fa, i Padri del Concilio Vaticano II spalancarono verso il mondo. Questa scadenza non può essere ricordata solo per la ricchezza dei documenti prodotti, che fino ai nostri giorni permettono di verificare il grande progresso compiuto nella fede. In primo luogo, però, il Concilio è stato un incontro. Un vero incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo. Un incontro segnato dalla forza dello Spirito che spingeva la sua Chiesa ad uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in sé stessa, per riprendere con entusiasmo il cammino missionario.

Era la ripresa di un percorso per andare incontro ad ogni uomo là dove vive: nella sua città, nella sua casa, nel luogo di lavoro… dovunque c’è una persona, là la Chiesa è chiamata a raggiungerla per portare la gioia del Vangelo e portare la misericordia e il perdono di Dio. Una spinta missionaria, dunque, che dopo questi decenni riprendiamo con la stessa forza e lo stesso entusiasmo. Il Giubileo ci provoca a questa apertura e ci obbliga a non trascurare lo spirito emerso dal Vaticano II, quello del Samaritano, come ricordò il beato Paolo VI a conclusione del Concilio. Attraversare oggi la Porta Santa ci impegni a fare nostra la misericordia del buon samaritano”. C’è qui il nesso profondo che unisce Francesco, il Concilio e Paolo VI. Bergoglio e Montini sono due papi, due persone dalle caratteristiche profondamente diverse; uno lo ricordiamo introverso, dall’eloquio raffinato, l’altro lo vediamo estremamente estroverso, dall’eloquio diretto… ma la loro convergenza culturale, di fede, di visione evangelica, è evidente.

È in questo rapporto speciale che si trova anche il senso delle avversioni ineleganti, a tratti volgari, che entrambi hanno patito. Montini per certi cattolici era Maolo VI, il papa marxista, proprio come Bergoglio. Dopo Montini, il papa che seppe chiedere di presentare la Humanae Vitae specificando che non vi era alcuna infallibilità e che il papa avrebbe ascoltato e apprezzato anche le critiche, anche Bergoglio si dimostra capace di accettare il conflitto, a differenza di molti suoi critici. È il viaggio verso le periferie geografiche, esistenziali, non verso le aule di giustizia, che li unisce.

Montini è stato il papa del “ma”, uno studio inglese dimostra che “but” è la parola più usata nei suoi testi. Consapevole della complessità, come Bergoglio, Montini ha usato il “ma” anche per aprire la seconda parte di una delle sue frasi più forti e importanti, quella che legittima il tirannicidio: ma mettendo tutti in guardia dal rischio forse incombente di cadere in un’altra tirannide.

Paolo VI, proprio come Francesco, è stato un grande dono per la Chiesa, ma non solo per essa. Dai tempi del fascismo fino all’epoca del centro sinistra l’Italia ha trovato in lui un punto di riferimento costante e la cultura un riferimento ricco e visionario, come dimostra la sua stessa capacità di lettura del futuro delle metropoli già al tempo in cui era arcivescovo di Milano. Una lettura che in termini di profondità e visione ricorda la lettura della città del terzo millennio nei testi dell’arcivescovo di Buenos Aires.

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