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Perché il saccheggio dei mari africani inasprirà il problema delle migrazioni

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L’argomento può apparire poco “sexy” ma gli effetti del cosiddetto “overfishing”, o sovrappesca, si stanno cominciando a sentire proprio in Africa. C’è in ballo la pesca di frodo e la sopravvivenza degli stock marini, le dinamiche internazionali della politica di pesca comune UE e l’azione spregiudicata di paesi come Cina o Corea del Sud. C’è il rischio di povertà assoluta nelle popolazioni dedite alla pesca tradizionale e l’inazione o la cronica mancanza di risorse dei governi africani nella lotta alle attività illecite in questo settore. Sono le scene di un film muto che nessuno intende recensire. Presto, che si voglia o no, se ne dovrà parlare ed è per questo che ho deciso di spendere due parole sul tema. Sto girando una serie di documentari denominata “Untold Africa” per far conoscere meglio questo continente e abbattere alcuni dei numerosi stereotipi diffusi in Italia e in Europa. In questa puntata ho pensato di vivere per un giorno la vita di un pescatore africano. “Questa gente non ha idea di cosa stia accadendo un po’ più a largo delle proprie acque”, emerge dalla video-inchiesta mentre intervisto due di loro. “Pensano che vi sia meno pesce nelle reti a causa dell’aumento esponenziale delle attività di pesca tradizionale. Ma si tratta solo di tante canoe in un mare un tempo pescoso. La vera minaccia sono le navi straniere dedite alla pesca illegale”.

Un rapporto recente di Frontiers in Marine Science ha stimato che ogni anno i Paesi dell’Africa Occidentale soffrono una perdita di 2,3 miliardi di dollari a causa della pesca illegale. Alcune aree, come quella sotto la giurisdizione del Ghana, arrivano a perdere sino al 40% delle proprie risorse marittime, saccheggiate da chi non dovrebbe. Se si considera che il 10% della popolazione in Ghana è impiegato nel settore della pesca, è facile calcolare come almeno 3 milioni di persone siano potenzialmente vulnerabili. E questi dati riguardano solo un Paese.

Durante la Giornata internazionale contro la pesca illegale (IUU) indetta dalla Fao, il Commissario europeo per l’ambiente, gli affari marittimi e la pesca, Karmenu Vella, aveva promesso una lotta a tutto campo contro la pesca illegale in Africa. L’Europa, ha specificato il Commissario, concederà risorse ai Paesi dell’Africa occidentale “per contrastare le attività di pesca illegale e non regolamentata”. In un’altra occasione, Vella ha dichiarato che l’economia blu è in crescita. Entro il 2030, addirittura, raddoppierà e ciò avverrà con uno stretto monitoraggio dell’ambiente. Insomma, ha annunciato soddisfatto Vella, lo sfruttamento dei mari continuerà in maniera assolutamente sostenibile. Tale gestione responsabile tuttavia, va puntualizzato, si riferisce ai “nostri oceani, mari ed aree costiere”. E fuori? Come si comporta, ad esempio, l’Unione Europea rispetto al suo grande partner regionale, l’Africa? Come si concilia la profezia del raddoppio degli introiti nella pesca con l’esigenza di mettere uno stop al continuo sfruttamento dei mari?

Basta andare in un mercato africano del pesce per capire che è in atto una vera e propria emergenza ambientale: il pesce, scambiato come una commodity, sta per esaurirsi. Le aragoste, ad esempio, che prima abbondavano, oggi non si trovano quasi più in alcune zone. Molte specie ittiche sono state dichiarate localmente estinte. I pesci di taglia grande vengono tirati su dalle reti sempre più piccoli, vale a dire molto giovani. I cicli riproduttivi non riescono a tenere il passo con il ritmo di prelevamento dalle acque. I pesci pelagici di taglia minore restano gli unici ad essere pescati in abbondanza, sottraendo prede ai pesci grandi già minacciati. È un circolo vizioso che rischia di condurre milioni di persone alla fame. La piccola pesca, infatti, non può reggere il confronto con i pescherecci industriali stranieri che, in flotta, depredano le acque con dispositivi di cattura sempre più moderni e letali.

In Ghana, il Ministro della Pesca ha bandito ogni attività da agosto a settembre, creando parecchio risentimento. Come si può immaginare che i pescatori locali, privi di altre fonti di sostentamento, possano realisticamente rispettare questo divieto, pur necessario? Chi, inoltre, può controllare il rispetto di simili regole in Paesi dove non esiste nemmeno una vera e propria Guardia Costiera?

Il nuovo Presidente della Sierra Leone, Julius Maada Bio, ha affermato che il settore della pesca è giunto ormai ad un livello critico. I dati per un Paese povero come la Sierra Leone sono ancora più allarmanti: Freetown perde ogni anno 50 milioni di dollari a causa della pesca illegale e il sequestro di navi coreane o cinesi con reti fuorilegge o l’arresto dei membri dell’equipaggio è solo un lieve palliativo.

In Africa occidentale, peraltro, si sta sempre più affermando il cd. “Saiko”, da una parola giapponese che significa “oggetto inutile”. È un’attività di pesca illecita che coinvolge le navi straniere e i pescatori locali ridotti in uno stato di disperazione. Ogni peschereccio, infatti, riceve una licenza limitata solo ad alcune specie di pesci. Quelli che utilizzano reti a strascico o reti a circuizione, tuttavia, raccolgono di tutto: squali, tartarughe marine, tonni troppo giovani e altri pesci dallo scarso valore commerciale. In teoria sarebbero tenuti a scartare le catture indesiderate, rigettandole vive a mare. Ma selezionare i pesci richiede tempo, soprattutto se le reti hanno intrappolato ingenti quantità di animali. Alla fine del processo, sono in pochi ad essere ancora vivi. Le canoe tradizionali, che sono barche molto rudimentali, hanno cominciato ad avvicinarsi a questi grandi pescherecci, che inizialmente regalavano loro il pescato indesiderato (e illegalmente trattenuto). Col passare del tempo, parecchie navi hanno deciso di barattare o vendere tale mercanzia, ottenendo profitti illegittimi e commettendo crimini fiscali e ambientali. Oggi la pratica è talmente diffusa che alcuni piccoli pescatori si sono trasformati in semplici contrabbandieri.

Con un simile stato delle cose, pare dunque che la prudenza che l’Unione Europea ha verso i propri mari non sia altrettanto ricambiata nelle acque straniere. Gli accordi di pesca bilaterali stipulati con alcuni paesi africani, infatti, dimostrano che l’atteggiamento europeo è poco coerente. Basti guardare a casi come quello dell’accordo di pesca della Costa d’Avorio, recentemente rinnovato. Da un lato, l’UE si impegna a pagare appena 680 mila euro annuali in diritti di pesca, tutelando inoltre i propri armatori, principalmente francesi e spagnoli, con la negoziazione di una tariffa di pesca di appena 35 euro a tonnellata. Dall’altro, riesce a strappare un volume di pesca massimo pari a 6500 tonnellate di pesce, ottenibili praticamente sborsando l’equivalente del prezzo di un appartamento di medie dimensioni a Roma. Sembra uno scherzo, quindi, che con quei soldi, come contropartita allo sfruttamento del mare, ci si impegni, per salvare la faccia, ad aiutare la Costa d’Avorio a sviluppare l’acquacultura. Finito il pesce fresco, sembra doversi dire agli ivoriani, bisognerà puntare su quello di allevamento.

In Mauritania, dove c’è uno dei mari più pescosi al mondo, le cifre degli accordi di pesca sono più consistenti: si parla, infatti, di oltre 61 milioni di euro a fronte di 287 mila tonnellate di pescato. Non c’è nessuno, però, a controllare che la pesca avvenga in maniera sostenibile, che venga catturato solo lo stock di pesce in surplus o che si rispettino le limitazioni previste. Essendo la vigilanza locale carente, la compliance con la normativa resta affidata agli stessi operatori.

E che dire, infine, delle zone in cui i partenariati di pesca sono “dormienti”? Si pensi ad esempio al Gambia, il cui accordo è scaduto nel 1996, o alla Guinea Equatoriale, senza regole dal 2001. Quando è così, praticamente, le navi europee e di qualsiasi altra bandiera possono lanciare in acqua le reti finché vogliono: ancora una volta non c’è nessuno a controllare e, peggio ancora, non ci sono parametri da rispettare.

Eppure, i pescherecci che escono da Gibilterra, tutto sommato, sono il male minore. Questi, infatti, sono sempre più soppiantati da una potenza marittima che agisce senza scrupoli: la Cina. L’ultimo rapporto di Greenpeace svela una serie di trasgressioni e reati commessi dai cinesi, che praticano senza problemi tecniche bandite come la pesca con la dinamite. Hanno bisogno di quantità sempre più ingenti di pesce per sfamare la loro mostruosa mole di abitanti. Per questo hanno indirizzato verso il periplo africano flotte di pescherecci sino a circa 500 unità. In confronto, le 28 navi franco-spagnole che pascolano di fronte alla Costa d’Avorio sono un problema trascurabile. Le navi cinesi sono equipaggiate con le tecnologie più esiziali e i diritti di pesca sono ripagati con infrastrutture e strade asfaltate che durano appena un paio di stagioni. Nel frattempo, però, dal mare è sparita ogni forma di vita e certe devastazioni sono talmente gravi da essere visibili anche dal satellite.

Gli appelli degli ambientalisti spesso restano vani. Pochi, o forse nessuno, al di fuori delle autorità statali, dispongono del potere e dei mezzi per compiere degli studi approfonditi tali da dimostrare i danni sinora causati dalla spregiudicatezza di certe navi. Se non ci sono dati, statistiche o mappature è difficile prendere delle concrete misure che possano preservare l’integrità degli stock marini. Il principio di precauzione, qui, è rimpiazzato dalla gestione caotica, causale o semplicemente motivata da interessi personali. I governi africani dovrebbero, invece, condurre profonde inchieste, riformare o implementare le proprie leggi e attribuire i diritti di pesca con giudizio. In questo senso, la lotta alla corruzione è una precondizione essenziale. Ma occorre anche portare l’Europa a ripensare le proprie politiche di pesca senza valersi di due pesi e due misure, se non si vuole che anche questa potenziale crisi possa andare ad incidere su un problema già grave, quello delle migrazioni dei popoli. I guadagni ottenuti con gli accordi di pesca capestro potrebbero, infatti, non essere tali da compensare il costo economico e sociale dell’inasprimento della crisi migratoria che già stiamo vivendo.

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