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Con gli Usa di Trump o con il regime iraniano? Il bivio per l’Italia (e la Ue)

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Più chiaro di così non si poteva. “Chiunque faccia affari con l’Iran non farà più affari con gli Stati Uniti”. Con un tweet al vetriolo il presidente americano Donald Trump annuncia l’entrata in vigore delle “più dure sanzioni mai imposte” sull’Iran. E mette l’Europa di fronte a un aut-aut che in fondo Bruxelles sperava di evitare.

Sarà il dipartimento del Tesoro a gestire il nuovo pacchetto di sanzioni, che segue il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare (Jcpoa) annunciato a maggio da Trump e affonda il colpo nei settori finanziario, siderurgico e dell’automotive iraniano. Il 4 novembre arriva la seconda stangata, forse più dolorosa, su petrolio, energia e sistema bancario. Per la repubblica islamica, che tramite il ministro degli Esteri Javad Zarif accusa gli Stati Uniti di fomentare una “guerra psicologica”, rischia di essere un colpo letale. La strategia, spiega un dettagliato report dell’Ispi, è destabilizzare il Paese e accrescere il malcontento della popolazione iraniana verso il governo. I primi sintomi già ci sono: le strade di Teheran e dei principali centri abitati sono piene di manifestanti infuriati per il caro-vita. Per gli alti ufficiali dell’amministrazione Usa si tratta di rivolta popolare contro l’aggressione del regime. Non è così per il governo iraniano, che accusa Washington di preparare un regime change a danno dei cittadini.

I toni del presidente americano non devono ingannare. Il tycoon ha perseguito la stessa strategia con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un. Prima l’escalation verbale, poi le sanzioni e le minacce di un intervento militare, infine il tavolo negoziale. Con il governo di Hassan Rohani Trump è appena entrato nella fase due. La scommessa della Casa Bianca è che la leadership politica e religiosa iraniana, piegata dall’isolamento economico e affaticata dal malcontento nella popolazione civile, decida di scendere a patti con Washington rinegoziando il Jcpoa e dando qualche rassicurazione in merito alla sua presenza militare in Medio Oriente. È una scommessa rischiosa, che con Kim ha funzionato solo in parte, se è vero, come affermano Onu e intelligence americana, che non ha affatto rinunciato al suo programma nucleare e missilistico.

In fondo il rischio e la scommessa sono le cifre caratteristiche del Tycoon. Da rodato uomo di affari qual è, Trump è convinto di avere il fiuto adatto per capire quanto tirare la corda prima di spezzarla. E ha dimostrato in passato di saper fare un passo indietro per venire incontro alle richieste della controparte. Così l’Unione Europea può ancora sperare in un margine di flessibilità per proteggere le aziende degli Stati membri operanti in Iran senza incappare nelle sanzioni secondarie americane. Queste sono particolarmente incisive perché a differenza di quelle europee sono extraterritoriali, ovvero colpiscono tutte le società che abbiano una sede negli States, siano controllate da cittadini americani o usino i dollari per compiere le transazioni. La Commissione Ue ha già un piano per aggirare le sanzioni Usa.

Si tratta del “blocking statute”, una misura già utilizzata nel 1996 per permettere alle aziende europee di operare in Libia, Cuba e Iran senza inciampare nelle sanzioni americane allora imposte su quei Paesi. In poche parole, si legge nel testo della legge rispolverata in queste settimane, il blocking statute protegge le aziende europee “dagli effetti dell’applicazione extra-territoriale di una legge adottata da un Paese terzo”. A Washington però non sembrano minimamente toccati dalla determinazione di Jean Claude-Juncker. “Non siamo particolarmente preoccupati” hanno commentato alti funzionari dell’amministrazione Trump sentiti da Formiche.net, “abbiamo intenzione di implementare le sanzioni aggressivamente”.

Oltre alla contromossa della Commissione si deve registrare una decisa presa di posizione dell’Alto Rappresentante Ue Federica Mogherini, artefice e convinta sostenitrice dell’accordo sul nucleare con Teheran, che in una nota con i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Regno Unito condanna le sanzioni americane. L’Italia non si unisce al coro, e questo di per sé è significativo, perché lo Stivale è il Paese europeo con il più alto interscambio con l’Iran (quasi 5 miliardi di euro nel 2017). Prima con il governo Renzi, poi con Gentiloni, decine di aziende italiane erano tornate a operare a Teheran godendo della sospensione delle sanzioni internazionali, compresi giganti come Saipem, Ansaldo Energia e Gavio. Nell’ultima legge di bilancio il governo italiano aveva cercato di tutelare gli investimenti italiani in Iran conferendo all’agenzia del Tesoro Invitalia di “operare come istituzione finanziaria” nei Paesi esteri “qualificati ad alto rischio dal Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale (Gafi-Fatf)” fra cui l’Iran, e aprendo una linea di credito da cinque miliardi di euro per alcune banche iraniane. A maggio, a pochi giorni dal giuramento del governo gialloverde, un decreto della presidenza del Consiglio redatto dall’allora ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan proponeva la costituzione di una nuova agenzia controllata da Invitalia, Invitalia Global Investment. L’agenzia, ha scritto il vicedirettore del Fatto Quotidiano Stefano Feltri che ha visto il decreto, avrebbe dovuto operare all’estero come “entità indipendente e separata” sotto la guida dell’ad Giuseppe Arcucci. Per il momento però il decreto non è stato attuato e rimane sul tavolo del governo Conte. Una bella patata bollente per il nuovo esecutivo, che nella prossima legge di bilancio dovrà decidere se assicurare gli investimenti italiani in Iran mettendo a rischio il business, infinitamente superiore, delle aziende italiane con gli States.

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