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Hong Kong ancora senza pace. E le violenze aumentano…

Le proteste che hanno portato migliaia di manifestanti pro-democrazia per le strade di Hong Kong negli ultime tre mesi stanno scivolando verso un ulteriore livello di violenza. Nella notte ci sono stati scontri duri con le unità antisommossa cinese, in territori che finora non erano stati interessati dalle attività. Le proteste, dice la polizia, sono aumentate in veemenza, e “potrebbero finire per uccidere qualcuno”. È il sedicesimo weekend continuativo, ma da quando a giugno le famiglie sfilavano pacifiche lungo le vie dell’hub finanziario, le cose sono cambiate: ora le manifestazioni sfogano regolarmente in scontri pesanti. “Siamo ancora nel mezzo di una crisi”, ha detto un comandante della polizia locale parlando a condizione di anonimato con un gruppo di reporter di media internazionali: “Devi davvero essere sicuro che qualsiasi misura tu prenda ora sia utile per la risoluzione della situazione, che non stai giocando nelle mani di persone il cui unico obiettivo è quello di minare la polizia in modo che questa situazione possa peggiorare”.

Dietro a queste parole c’è anche un piano infimo che Pechino sta conducendo: estremizzare la situazione, costruirle attorno una narrazione secondo cui chiunque manifesta è un “rivoltoso” (se non autore di “atti terroristici”), mettere in risalto i violenti. Questo permette al governo cinese di affrontare tutto con uno spettro più ampio: inquadrare la situazione come una questione di sicurezza nazionale e non come una richiesta di maggiori libertà (diritti, democrazia) che arriva da una delle province esterne al mainland che ha assaporato il quadro garantito dal diritto occidentale e chiede che — secondo gli accordi stretti con il Regno Unito al momento della riconsegna — venga preservato.

Questo contesto permette alla Cina di proteggere anche la propria immagine a livello internazionale. Se i manifestanti lanciano molotov, attaccano i poliziotti, se le manifestazioni diventano flash-mob di guerriglia organizzata sui social network, sono i manifestanti stessi a delineare il presupposto per la reazione cinese e diventa terreno fertile per le giustificazioni che una potenza con proiezione globale intende diffondere all’esterno. In questo scenario, un simbolo: i muri pieni di post-it scritti dai cittadini, opere di street-artist, messaggi colorati pro-democrazia, i Lennon Walls diventati uno dei simboli forti delle richieste democratiche, sono stati smantellati. Le autorità hanno rimosso ciò che vi era attaccato e lasciato spazio al cemento delle pareti, simbolo altrettanto di questa fase grigia.

L’ambiente narrativo lascia indietro un report piuttosto esplicito redatto in questi giorni da Amnesty International, che accusa la polizia cinese — Pechino ha una guarnigione a Hong Kong che in queste settimane è stata rinforzata — per i metodi pesanti usati per reprimere le manifestazioni. “Gli agenti hanno ripetutamente usato la violenza prima e durante gli arresti, anche quando l’individuo era stato immobilizzato. L’uso della forza è stato pertanto chiaramente eccessivo e ha violato il diritto internazionale in materia di diritti umani”, dice l’analisi basata sui racconti di alcuni degli arrestati. Il campione è oggettivamente limitato, 38 persone, ma le testimonianze del trattamento aggressivo con cui la polizia cinese ha affrontato la pratica sono ovunque: anche stanotte sono circolati video in cui si vedono gli agenti sparare i lacrimogeni ad alzo zero, nel tentativo chiaro di colpire i manifestanti con il proiettile prima che col gas.

E hanno spruzzato spray al peperoncino contro persone inermi, a terra: c’è una nuova foto simbolo fatta per Reuters in cui si vede un poliziotto sparare lo spray sugli occhi e sulla bocca di un anziano, da pochi centimetri di distanza. Inondare occhi e bocca significa bloccare entrambe le vie aeree, ma il governativo Global Times cinese scrive a proposito di un’altra vicenda che ha coinvolto altri due anziani: racconta che sono stati aggrediti solo per aver detto ai “rioters” di essere pro-Cina; basta approfondire sui social network per sapere che in realtà avevano attaccato loro, con in mano bottiglie di vetro spaccate. Poi sono stati picchiati dalla folla.

Narrativa, propaganda, disinformazione. La situazione sta diventando più tesa anche perché si avvicina il 1 ottobre, giorno fissato da Pechino per festeggiare il 70esimo della Repubblica popolare. Cerimonie previste anche a Hong Kong, chiaramente. Ma è una data a cui il governo cinese avrebbe preferito arrivare senza beghe interne di caratura internazionale come quella honkonghese. Apparentemente l’organizzazione dei festeggiamenti conferma la fiducia nella governatrice locale Carrie Lam — che sarà in grado di risolvere le proteste, dice l’esecutivo centrale — sebbene sia noto che il rapporto tra Pechino e la sua rappresentante nel Porto Profumato sia apertamente in crisi, accusata di non essere stata risoluta e di aver colpa dello scivolamento della situazione. Per questo non si possono escludere decisioni last minute ben più determinate. I presupposti sono stati creati.

(Foto: Twitter, Hong Kong Free Press)

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