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Perché il negazionismo non va combattuto nei tribunali

Il negazionismo è diventato un reato. Dopo un decennio di accese discussioni, la Camera ha approvato la proposta di legge che lo punisce con una pena da due a sei anni di reclusione. Ma non è chiamata in causa solo la negazione della Shoah. Pene più aspre sono previste anche per chi propaganda ideologie razziste fondate sulla “negazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra”.

Come osserva Simonetta Fiori in un lucido articolo pubblicato oggi su Repubblica, ora toccherà ai tribunali dirimere questioni su cui la stessa comunità scientifica non ha ha mai trovato un accordo. Non solo la maggioranza degli storici, ma molti giuristi sono scettici sull’opportunità del provvedimento. Ad esempio: quando scatta la nozione di genocidio? Nel 1948, la Convenzione dell’Onu definì genocidio “l’azione di negare a interi gruppi comuni il diritto di esistere, così come l’omicidio è la negazione del diritto all’esistenza di un singolo essere umano; una tale negazione ferisce la coscienza dell’umanità intera, le infligge una grave perdita […]. La repressione del genocidio è una questione di interesse internazionale”.

Ma il genocidio degli ebrei conquistò la scena giudiziaria e storica solamente a Gerusalemme, nel 1961, durante il processo Eichmann. Fu questo processo che fece nascere una nuova consapevolezza della portata della catastrofe e marcò con una traccia indelebile la cultura del secondo Novecento. Il merito fu anche di un saggio di Hannah Arendt stampato nel 1963: “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”. Il libro scatenò accese dispute tra i cronisti presenti, dallo Hugh Trevor-Roper a Telford Taylor, già principale accusatore al processo di Norimberga (novembre 1945-ottobre 1946), da Martha Gellhorn a Elie Wiesel, e provocò anche uno scambio di feroci accuse tra le autorità di Israele e l’autrice. Soprattutto, esso aprì la controversia sulla relazione tra antisemitismo e sterminio.

Al processo, l’idea della filosofa tedesca che Eichmann costituisse il modello del funzionario totalitario andava “contro coloro che miravano a confonderle, sino ad annullarle, le responsabilità individuali nella colpa collettiva” (Michele Battini, “Il socialismo degli imbecilli”, Bollati Boringhieri, 2010).

Perché ho richiamato questa vicenda? Perché il giudizio della Arendt rimane un riferimento insuperabile. Esso implica la convinzione che la prova rappresenta la forza di giudici e storici, e che le loro divergenze rimontano semmai solo alla differente posizione nei confronti del contesto sociale di un atto criminoso. Come ha sostenuto Carlo Ginzburg, tale contesto può costituire una circostanza attenuante per il giudice, mentre può illuminare i fatti per lo storico. I negazionisti di solito si autoassegnano il titolo di “storici revisionisti”. Si propongono di liberare la storia dalla “menzogna di Auschwitz”.

Il loro collante è l’antisemitismo. Definiscono l’Olocausto come un “mito”, ovvero una deliberata mistificazione della realtà a beneficio degli stessi ebrei, coalizzati in una vera e propria internazionale sionista, che manipolerebbe la memoria del passato per rinnovare e garantirsi un potere egemonico sul mondo intero. Nel campo della ricerca storica, queste farneticazioni non hanno trovato ascolto alcuno, e sono state rigettate per la loro palese inconsistenza scientifica e per la loro smaccata tendenziosità ideologica. Per contestare queste scempiaggini, mi sembra ancora preferibile affidarsi alla vocazione inquisitoria dello storico piuttosto che alla vocazione sanzionatoria del giudice in un’aula di tribunale.

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