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La solitudine di Recep Tayyip Erdogan

Di Soner Cagaptay
Erdogan

Da quando è salito al potere nel 2002, il leader turco Recep Tayyip Erdogan ha lanciato un’ambiziosa agenda di politica estera per rendere la Turchia una potenza autonoma nel Medio Oriente, ispirandosi soprattutto alla sua storia ottomana.

La romanticizzazione dell’Impero ottomano e del suo collasso continua a plasmare la visione che la Turchia ha del suo posto nel mondo. Dopo aver creato la Turchia moderna dalle ceneri dell’Impero ottomano alla fine della Prima guerra mondiale, nel periodo interbellico Ataturk aveva abbracciato un progetto di occidentalizzazione su larga scala per rendere la Turchia una nazione potente, perché al tempo erano le nazioni europee le grandi potenze mondiali. Per lo stesso motivo, i presidenti turchi che hanno seguito Ataturk hanno ripiegato su Washington, quando gli Usa emergevano come superpotenza globale nel secondo dopoguerra. Come già i sultani ottomani e Ataturk, anche Erdogan ha tentato di restituire grandezza alla politica estera turca, evocando i fasti del potere ottomano nel XVI e XVII secolo.

Tuttavia, diversamente dai suoi predecessori, nel corso degli anni Duemila, Erdogan ha preso le distanze dai due pilastri che hanno sempre plasmato l’approccio di Ankara, neutralità nel Medio Oriente e focus sui legami con Europa e Usa, cercando invece di rafforzare i legami con i Paesi della regione e con i Paesi di America Latina, Africa e Asia, per accrescere l’influenza internazionale della Turchia. Erdogan, agli albori della sua carriera politica, ha fatto irruzione nella scena turca degli anni 70 facendosi promotore dell’Islam politico, un’ideologia che vede l’Europa e l’occidente come antitetici al sistema politico islamico.

La visione dell’occidente come “influenza velenosa sull’Islam” ha ispirato le scelte di politica estera di Erdogan, così come il suo stile di governo domestico. Il presidente turco non si è fatto scrupoli a calpestare i valori liberaldemocratici e i gruppi di opposizione da questi ispirati, molti dei quali identificati con l’occidente. Nel corso dell’ultima decade la Turchia di Erdogan si è inesorabilmente allontanata da Europa e Usa, facendo propria un’agenda di politica estera tesa a rafforzare i legami nella regione e a ergersi a punto di riferimento tra le nazioni mediorientali a maggioranza musulmana.

Così si spiega anche la volontà di forgiare rapporti con tutti gli altri partiti islamisti della regione, per rendere la Turchia una potenza autarchica nel Medio Oriente attraverso l’uso di queste proxy e alleati. Tale disegno è largamente ispirato dalla filosofia politica di Davutoglu, al cui cuore c’è l’idea che la Turchia possa divenire una potenza regionale sviluppando legami migliori con i suoi vicini musulmani, qualche volta anche a spese del rapporto con l’occidente. Davutoglu augurava alla Turchia di avere “zero problemi con i vicini”. Secondo un’espressione comune, invece di avere zero problemi con i vicini, la Turchia è finita per avere zero vicini senza problemi.

Il peccato originale di Erdogan e Davutoglu è stato quello di limitare le opzioni a disposizione della Turchia investendo tutto il proprio capitale a disposizione sulla Fratellanza musulmana. Dato che questo investimento si è rivelato fallimentare, Ankara ha finito per perdere tutto. Erdogan avrebbe dovuto tenere contemporaneamente aperte altre linee di comunicazione con gli altri attori dei Paesi che sperimentavano le Primavere arabe. Nel 2016 Ankara ha parzialmente tentato di rimediare a questi errori cercando di ricucire i rapporti con Israele. Tuttavia, le relazioni tra i due Paesi non possono certo dirsi armoniose. Allo stesso modo, nonostante siano entrambi dei protagonisti del populismo autoritario globale, difficilmente Putin perdonerà a Erdogan i suoi errori. Anche il regime di Assad è ormai un nemico dichiarato di Ankara. Il presidente siriano non perdonerà a Erdogan il tentativo di spodestarlo, e potrebbe persino usare i suoi legami storici con i gruppi turchi di estrema sinistra per creare instabilità nel Paese. Anche i rapporti turco-iraniani non vivono tempi facili.

Nonostante le relazioni commerciali siano ottime, la relazione è dominata dalla competizione strategica tra i due Paesi in Siria e Iraq. Comunque finisca il conflitto siriano, Teheran non accetterà che Ankara guadagni dei territori a spese del suo alleato, e allo stesso modo sosterrà il governo di Baghdad nella sua opposizione alla presenza militare turca nel nord del Paese. Nel complesso, la politica di Erdogan ha lasciato il Paese con pochi alleati. Coloro che possiedono potere militare, come gli Usa, sono divenuti molto più cauti nell’utilizzarlo in una regione instabile e con una Turchia sempre più illiberale. Erdogan dovrà necessariamente rivedere la linea di politica estera che ha perseguito nell’ultima decade. Essa, alla fine, ha lasciato il Paese incastrato nel pantano siriano, isolato in Medio Oriente ed esposto a molte minacce.

(Articolo pubblicato sul numero 138 della rivista Formiche)

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