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Ecco quando Matteo Renzi e Dario Franceschini andavano d’amore e d’accordo. Le foto

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C’era una volta. C’era una volta quando Matteo Renzi e Dario Franceschini andavano d’accordo. C’era una volta. Ora di sicuro non più a leggere le cronache politiche dei principali quotidiani in cui campeggiano stilettate più o meno indirette e velenosità a piene mani. Qualche esempio del dissidio tra i due dopo le dimissioni annunciate dal premier all’indomani del risultato referendario del 4 dicembre? Eccole, tutte frutto della volontà del ministro Franceschini di non seguire la direzione di marcia invocata dal premier per un ricorso a breve ad elezioni anticipate.

Ecco cosa scrive oggi Maria Teresa Meli, giornalista del Corriere della Sera ritenuta molto vicina al premier: “Il leader è a Pontassieve (dovrebbe tornare a Roma oggi pomeriggio) e il Partito democratico si interroga sulle sue mosse future. Lo fanno anche i renziani che ieri erano particolarmente interessati a un sondaggio di Nicola Piepoli, secondo il quale un partito dell’ex premier avrebbe più consensi del Pd. È un’idea che stuzzica una fetta dei sostenitori del segretario. Per intendersi, quella che vede con maggior fastidio le manovre di Franceschini e compagni”.

Una traccia del dissidio tra i due esponenti del Pd e in passato della Dc e della Margherita si trova anche in un articolo del Corsera, a firma Francesco Verderami: “Cosa pensasse di lui, Renzi l’aveva detto due anni fa al microfono in una direzione del Pd: «Scusate, nella ressa è sparito un cappotto. Dario si è già costruito un alibi di ferro». Solo processi indiziari a carico dell’avvocato Franceschini, mai una prova che abbia consentito alle sue presunte vittime di incastrarlo. Che poi in politica non esistono i complotti, perché ogni vicenda è la risultanza di mosse azzeccate e sbagliate. E se Renzi si trova oggi in un cul de sac non è certo per colpa del ministro della Cultura.

Ma siccome lo dipingono così, siccome per anni è riuscito a superare indenne le alterne fortune del centrosinistra, dell’Ulivo e del Pd, con l’avvento di Renzi aveva deciso di rifugiarsi nella splendida stanza del suo dicastero, circondato da un muro di libri e incurante del motto che gli avevano cucito addosso: «Ora et manovra». Adesso che la risultanza referendaria ha spinto il premier a dimettersi, vive come un’ingiustizia quel venticello, la tesi cioè che si sia messo in proprio — in combutta con Berlusconi — per spodestare Renzi: «Scusate non posso parlare, sono ad Arcore a chiudere l’accordo». Una battuta per sdrammatizzare una situazione drammatica per il Pd. Un modo per sottolineare che ad Arcore non c’è mai stato, lui…

Sia chiaro, nessun Candide o Forrest Gump potrebbe campare così a lungo nel Palazzo. L’arte manovriera e l’istinto di sopravvivenza sono capacità e caratteristiche di chi si è forgiato alla scuola democristiana dei coltelli. Ma se anche stavolta Franceschini dovrà difendersi dall’accusa di tramare, potrà sempre dire che un alibi ce l’ha. Perché proprio lui, prima del voto, aveva consigliato Renzi a non compiere il passo che invece ha compiuto: «Matteo, non lasciare Palazzo Chigi. Se resti, potrai continuare comunque a controllare anche il partito. Se lasci, non avrai la forza nemmeno per controllare il partito»“.

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