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Somalia: primo o ultimo capitolo di una guerra?

Il 25 ottobre, il primo ministro etiopico Meles Zenawi dichiarava che l’Etiopia si trovava “tecnicamente in guerra” con l’Unione delle Corti Islamiche in Somalia. Tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre – non a caso al termine della stagione delle piogge, quest’anno particolarmente lunga e disastrosa per la Somalia – iniziano i primi scontri a fuoco tra le truppe di Addis Abeba e i guerriglieri islamici, che stringono d’assedio Baidoa. Un ultimo tentativo di dialogo tra le parti, dopo il fallimento dei colloqui di Khartoum sponsorizzati dalla Lega Araba, si svolge a Gibuti il 3 dicembre, senza tuttavia portare a significativi progressi nella situazione di stallo che si registra tra i belligeranti. Nel frattempo, il 30 novembre, Meles Zenawi ottiene dal proprio Parlamento l’autorizzazione a prendere tutti i provvedimenti necessari ad affrontare quella che, in seguito ad uno sconfinamento di poche truppe dell’UIC in territorio etiopico, viene pretestuosamente definita “un’ invasione somala”. La tensione tra le parti sale: il 6 dicembre, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approva la Risoluzione 1725, esprimendo l’appoggio dell’ONU alla decisione dell’Unione Africana (UA) di istituire una forza di peace-keeping multinazionale da inviare in Somalia. La Risoluzione prevede, in relazione alle necessità della futura missione di pace, deroghe all’embargo sulle armi istituito dall’ONU con la Risoluzione 733 (1992). Le Corti Islamiche contestano vivamente questa disposizione, interpretandola come un’autorizzazione implicita della Comunità Internazionale all’azione degli alleati del TFG, che da diversi mesi stanno cercando di rafforzare le deboli difese del Governo transitorio. Le forze islamiche sono tuttavia ben consapevoli del fatto che la missione di pace dell’ UA non potrà essere dispiegata finché esse controlleranno tutti i principali scali aerei e marittimi del Paese. Per questo, la minaccia più concreta rimane una sola: quella di un’invasione terrestre da parte dell’esercito etiopico. Il 12 dicembre, il comandante delle truppe dell’UIC, Sheikh Yusuf Indho-Ade, lancia un ultimatum ad Addis Abeba: se i soldati stranieri non si ritireranno entro una settimana dal suolo somalo, dovranno affrontare un attacco su vasta scala. L’ultimatum – che non ha alcun seguito – è solo l’ultimo di una serie di appelli alla guerra che, da entrambe le parti, chiamano ad un conflitto già scritto. È il 24 dicembre, e l’Etiopia decide di compiere il primo passo. Il primo ministro dichiara – dopo mesi di smentite – che truppe etiopiche sono presenti in Somalia, e che hanno lanciato un’operazione di “auto-difesa” lungo un fronte di 400 km al confine tra i due Paesi. La lettura degli avvenimenti intercorsi in Somalia tra la fine di dicembre e l’inizio del nuovo anno va al di là della constatazione di una guerra-lampo dagli esiti scontati, essendo tali avvenimenti interpretabili all’interno del più ampio quadro della lotta al terrorismo internazionale. Se la cerchia dei sostenitori del Governo Federale di Transizione è abbastanza chiara, non altrettanto si può dire per le Corti Islamiche, per le quali nei mesi passati si era parlato di un sostegno da parte dell’Egitto e dell’Eritrea – in funzione anti-Etiopica –, di un coinvolgimento di ricchi uomini d’affari della penisola arabica – in particolar modo degli Emirati Arabi Uniti, dove si trova una consistente diaspora somala – e di una rivalità tra Iran e Arabia Saudita per acquisire influenza all’interno delle Corti che l’UIC stessa avrebbe sfruttato per ottenere aiuti economici e militari da entrambi. Si era altresì sentito parlare di un coinvolgimento libico e siriano nella questione somala, voci che, assieme alle precedenti, sarebbero state confermate da un rapporto riservato stilato da un gruppo di esperti delle Nazioni Unite a novembre. Tuttavia, a giudicare dalla velocità con cui le milizie islamiche si sono sgretolate di fronte ai primi colpi dell’artiglieria e dell’aviazione etiopiche, viene da pensare che l’elemento esterno, nel giudicare l’ascesa della Corti Islamiche, sia stato sovrastimato.

Un tale errore di valutazione potrebbe non essere stato casuale: il coinvolgimento nella crisi di “Stati canaglia” come l’Iran, la Siria o la Libia, anche attraverso il reclutamento di mujahidin stranieri – confermato da testimoni oculari ma a quanto pare numericamente irrilevante – sono di questi tempi elementi fondamentali per rafforzare i pretesti per un intervento militare. A ciò bisogna aggiungere il fatto che, prima e durante i combattimenti, navi da guerra statunitensi hanno pattugliato i mari di fronte alla costa somala con lo scopo di prevenire eventuali rifornimenti di armi destinati all’UIC. Stesso compito è stato svolto dall’aviazione etiopica fin dai giorni immediatamente precedenti l’avvio delle ostilità.  Di conseguenza, l’unico modo per consegnare armi ai combattenti islamici sarebbe stato via terra dall’Eritrea, indicata da Addis Abeba come il principale sponsor degli islamisti somali. In realtà, è probabile che Meles Zenawi abbia enfatizzato oltre misura i rapporti tra il governo di Isaias Afwerki e l’UIC. Infatti, nonostante la ricerca di un rapporto con la leadership delle Corti Islamiche in funzione anti-etiope e la possibile presenza di truppe eritree in territorio somalo alla vigilia delle ostilità, il regime autoritario di Asmara si trova a dover combattere la crescita del radicalismo islamico armato sul proprio suolo e difficilmente può spingere oltre ad un certo limite il proprio supporto per una fazione politico-militare, come l’UIC, che proclama di voler fare della Somalia uno Stato islamico. “Se necessario, le truppe etiopiche resteranno per settimane, per mesi, non di più” ha dichiarato il 2 gennaio alla BBC il primo ministro del TFG. Ali Mohamed Ghedi. Nello stesso momento Meles Zenawi, di fronte al parlamento di Addis Abeba, affermava di avere intenzione di ritirare l’esercito entro due settimane.È probabile che la realtà sia più vicina a ciò che ha dichiarato il primo, che a ciò che auspica il secondo. Verosimilmente, sembra che le truppe etiopiche dovranno restare in Somalia almeno fino a quando non sarà pronta la missione di peace keeping prevista dall’ UA, per la quale si sono resi disponibili a inviare contingenti Uganda e Nigeria.

Nel frattempo, l’esercito e la polizia del Kenia stanno pattugliando il poroso confine tra Somalia e Kenya, nel tentativo di impedire la fuga di miliziani delle Corti: già dieci individui, che la polizia keniota ritiene essere alti responsabili dell’UIC, sono stati arrestati nei giorni scorsi. Tuttavia, è altamente probabile che gruppi di miliziani riescano comunque a fuggire in Kenya o a rifugiarsi in territori franchi nelle zone più remote del territorio somalo, per iniziare a riorganizzarsi in vista di future azioni di guerriglia e terrorismo. Al di là degli avvenimenti contingenti, infine, il grande punto interrogativo che si pone oggi è quello del futuro a medio e lungo termine di uno Stato che da più di quindici anni manca di istituzioni centralizzate. E’ difficile – anche se non impossibile – pensare che l’azione militare condotta congiuntamente dalle truppe di Addis Abeba e dalle esili forze a disposizione del TFG basti a pacificare una nazione che da quindici anni non conosce un momento di tregua.  Più probabilmente, quindi, gli eventi degli ultimi giorni daranno luogo ad una rinnovata ondata di violenza che potrebbe assumere i contorni di una vera e propria guerra civile, con implicazioni potenzialmente gravissime per la stabilità dell’intera regione del Corno d’Africa. Il TFG, nei due anni durante i quali è rimasto in carica – l’accordo istitutivo ne prevede una durata di cinque anni – è rimasto paralizzato da dinamiche di potere inter-claniche che ne hanno accresciuto l’impopolarità, favorendo l’ascesa delle Corti Islamiche. Il fatto che il TFG sia il risultato di un negoziato e di un’operazione meramente proporzionale non hanno aiutato la sua accettazione da parte della popolazione somala, che rigetta anche le forti influenze etiopiche e occidentali cui l’esecutivo di transizione è sottoposto. Un altro elemento di incertezza è dato dai signori della guerra, che le Corti Islamiche avevano cacciato dal Paese – con l’approvazione della popolazione locale – e che sono tornati protetti dai carri armati di Addis Abeba. Quale collocazione avranno? Saranno inseriti nell’esecutivo, con discutibile effetto sulla credibilità dello stesso, o torneranno a costituire una minaccia per la sicurezza della popolazione e la stabilità dell’intero Paese?  È necessario l’avviamento di un processo di State-building serio e sostenibile, per la realizzazione del quale il foro più adatto sembra essere l’IGAD, ma che necessita di un deciso re-impegno della comunità internazionale nei confronti di un Paese troppo a lungo dimenticato. In relazione a tale processo, gli Stati Uniti – che hanno sostenuto i signori della guerra e che probabilmente hanno incoraggiato l’intervento etiopico – si trovano nella scomoda posizione di dover cercare di convincere entrambi i loro alleati a retrocedere. Non ci potrà essere infatti una piena pacificazione della Somalia finché i signori della guerra conserveranno il proprio potere e finché l’Etiopia continuerà ad agire in modo così palese da “protettore” di alcuni clan a discapito di altri. Di conseguenza, se veramente vogliono arginare la minaccia terroristica in Somalia, gli USA e l’Europa – che sta iniziando a dare, anche su iniziativa dell’Italia, timidi segnali di una ripresa di interesse per la crisi somala – devono incrementare nel breve periodo gli sforzi militari e di intelligence per sventare la preparazione di attentati o la costituzione di cellule terroristiche.

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