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Sostenibilità tra ossimori e opportunità

L’idea che uno sviluppo sostenibile possa essere realizzato attraverso il risparmio nei consumi di energia e di risorse naturali rappresenta un messaggio immediato e rassicurante perché sembra indicare una strada da percorrere per affrontare e superare il coacervo di crisi che ci sta investendo, ma in realtà nasconde profonde insidie. I problemi nascono dal fatto che i successi ottenuti nella trasformazione intensiva delle risorse naturali hanno assecondato l’ambizione dell’uomo di avere controllo completo sulla natura, ma al contempo hanno contribuito a nascondere l’insostenibilità sociale nel lungo termine del modello di economia di mercato che vi è collegato.
Purtroppo i nodi alla fine vengono al pettine: il punto su cui riflettere è che se guardiamo al significato corrente dei termini sviluppo, sostenibilità, risparmio ed energia, leghiamo fra loro concetti inconciliabili.
 
Il primo ossimoro: sviluppo sostenibile. Il funzionamento dei moderni sistemi economici ha le proprie fondamenta nella libera iniziativa degli individui e nella forte presenza dello Stato: vizio privato e pubblica virtù, che deve portare una nazione a essere prospera e gloriosa, come scriveva 300 anni fa con una sintesi di incredibile efficacia De Mandeville nella favola delle api. Questi fattori si sono declinati in maniera diversa nel corso del tempo sino ad arrivare all’affermarsi della proposta culturale statunitense che, applicata su scala globale, ha consentito di accantonarne i limiti, già evidenziati da Veblen alla fine del XIX secolo nella “teoria della classe agiata” e che Robert Kennedy con affascinante coraggio intellettuale aveva affrontato nella campagna presidenziale del 1968, provando a scuotere il suo Paese, battistrada del mondo, dal torpore intellettuale in cui stava piombando: “… Non possiamo misurare i successi del Paese sulla base del prodotto nazionale lordo. Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e… non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza… Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.
 
Il diffondersi di un’idea di sviluppo legata a un modello culturale che individua nella crescente disponibilità di beni e servizi e nel loro consumo i suoi valori di riferimento aveva d’altra parte consentito di superare l’impasse della crisi strutturale del 1929 e, con la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, avrebbe indotto a ritenere di aver finalmente risolto i problemi delle dispute politiche sancendo il primato dell’economia. La carenza analitica l’aveva fatta da padrone permettendo di non separare ciò che è ideologia da ciò che è scienza, corrompendo purtroppo il patrimonio e le conquiste della cultura liberale.
Provocatoriamente, in quegli anni, Galbraith definiva la globalizzazione come termine coniato per mascherare la politica di penetrazione economica aggressiva degli Stati Uniti nei confronti del resto del mondo, così il ritenere che il modello di riferimento per lo sviluppo si basi sul comportamento massimizzante degli individui e sull’aggressività degli Stati, rende tale modello chiaramente non estendibile a oltranza e del tutto inconciliabile con un’accezione corretta di sostenibilità. Già nel 1903 Joseph Chamberlain provò a spiegare la profonda differenza tra wealth e welfare e come fosse per l’Inghilterra dell’epoca indispensabile concentrarsi sulle determinanti del welfare per arginare la profonda crisi in cui versava la sua potente nazione. Purtroppo rimase inascoltato e gli aspetti legati alle relazioni tra welfare e sostenibilità delle organizzazioni sociali sono dunque stati progressivamente trascurati, pur essendo fonte dell’inevitabile tensione fra iniziativa privata e interesse pubblico, che alimenta e porta con sé i germi della crisi.
 
Il secondo ossimoro: risparmio energetico. L’espansione e la globalizzazione dei mercati ha progressivamente esteso i suoi confini, permettendo l’accesso di nuovi soggetti alla competizione internazionale con strategie analoghe a quelle delle economie avanzate.
La pressione esercitata sul consumo di risorse naturali non può far altro che crescere, come i dati del World energy outlook 2010 dell’Agenzia internazionale dell’energia sottolineano: anche ipotizzando che i principali Paesi del globo perseguano politiche di riduzioni delle emissioni e di contenimento dell’utilizzo di energia, come previsto nello “scenario nuove politiche” del Weo, la domanda di energia primaria a livello mondiale crescerà del 36% fra il 2008 e il 2035. I Paesi non-Ocse saranno responsabili di circa il 94% di questo aumento, con Cina e India che vedranno rispettivamente crescere i propri consumi del 75% e del 100%: del resto l’incremento dei consumi di energia costituisce passo essenziale in qualsiasi percorso di sviluppo e l’aggressività in termini di consumo di risorse del nostro modello culturale è sempre più evidente. La Cina ne rappresenta l’esempio più eclatante, nel 2000 presentava una domanda energetica pari alla metà di quella americana e già nel 2009 è diventata il primo consumatore di energia al mondo.
Il terzo ossimoro: “sviluppo sostenibile” e “risparmio energetico”. Affrontare il problema dell’utilizzo delle risorse naturali richiede quindi di interrogarsi sull’attuale idea di sviluppo. L’attenzione ossessiva alla crescita contabile ha contribuito a mascherare il problema della sostenibilità reale, che non emerge nella sua gravità neanche quando si fa riferimento al cosiddetto decoupling, ovvero all’idea di un progressivo disallineamento fra la dinamica temporale di Pil, consumi energetici ed emissioni climalteranti.
 
Se sostenibilità è capacità di un insieme di organizzazioni sociali di preservarsi nel tempo, il tema diventa ora più che mai quello di ridisegnare un percorso di sviluppo che sia in grado di alimentare una libera economia di mercato fondata sul consumo di energia e di risorse naturali rinnovabili. Non si tratta di immettere quantità crescenti di risorse dedicate a politiche per rinnovabili o risparmio energetico, ma di operare attraverso la regolazione sui sistemi istituzionali per promuovere un radicale cambiamento culturale nei comportamenti di individui e imprese e nelle relazioni economiche e sociali con l’ambiente.
La sostenibilità dello sviluppo si gioca dunque sulla capacità di far emergere soluzioni istituzionali caratterizzate da condotte coerenti con un utilizzo responsabile delle risorse naturali. Se questa è la prospettiva, un Paese delle dimensioni dell’Italia avrebbe l’opportunità e la convenienza ad avere un ruolo attivo nella “rottura culturale” del paradigma sempre più soffocante, non solo metaforicamente, in cui ci troviamo.
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