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Europa, senza revisione non c’è Unione

Alla grande stampa non piace parlare in modo approfondito delle condizioni di partecipazione dell’Italia all’Unione europea e i gruppi dirigenti italiani sono riluttanti a voler apertamente trattare il problema per affrontarlo finché non trova soluzione. Il dibattito si mantiene a un livello improduttivo, con gli euroentusiasti che danno degli euroscettici a chi sostiene che il Trattato di Maastricht presenta gravi difetti perché fondato su ipotesi che non hanno retto alla prova dei fatti: esso avrebbe infatti dovuto propiziare l’unione politica dei Paesi membri e il loro sviluppo. Per essi gli accordi europei sono come il Vangelo: immutabili, anche se all’occasione interpretabili, qualora questa rientri negli interessi dei Paesi più forti; la loro è una religione nella quale si deve credere per fede e non per i risultati che offre. La tesi che essi avanzano in tutte le sedi è che l’Unione europea sta facendo passi avanti, facendo finta di ignorare che questi passi muovono verso vincoli sempre più stringenti, deflazionistici e incapaci di rimuovere i difetti: o i Paesi in difficoltà e i candidati a esserlo prima o dopo, come l’Italia, si comportano bene oppure verranno abbandonati alla loro sorte. La loro conclusione è che sia molto meglio prendersi la sorte decisa dalle “aquile” che quella, considerata per definizione peggiore, che sancirebbe il mercato globale per i “maiali” (Pigs). Poiché il sostegno concesso ai deboli per non spaccare l’Unione suscita reazioni nei forti, “l’idea d’Europa” trova sempre meno consensi negli uni e negli altri. Proprio un bel risultato! È lecito domandarsi chi tra le due fazioni contrapposte vuole veramente l’Unione europea.
 
Se abbandoniamo la strada delle reciproche inconcludenti accuse, ormai consuete nel nostro Paese, e abbracciamo l’analisi politica ed economica della situazione è possibile affermare che i problemi di finanza pubblica nell’Ue sono il risultato del trasferimento delle sovranità monetarie nazionali senza il parallelo trasferimento di quelle fiscali; nell’assenza cioè di quello che sarebbe dovuto essere il Trattato di Maastricht, ma non è stato: il viatico per l’unione politica. Se ci fosse stata anche l’unione fiscale le crisi greca, irlandese e portoghese non si sarebbero potute verificare. Su questo tema posso vantare d’aver avvertito in tempo gli effetti del Trattato in un pamphlet dal titolo L’Europa dai piedi di argilla e in altri scritti. Era noto che l’euro si sarebbe calato in un’area monetaria non ottimale la quale, lasciata alle cure del mercato, avrebbe accentuato le divergenze nei saggi di sviluppo interni, come infatti accaduto; essi sarebbero stati correggibili solo attraverso la libera circolazione del lavoro e dei capitali, accompagnata da politiche fiscali compensative.
 
Gli accordi di Schengen non integrati dalla direttiva Bolkenstein di liberalizzazione dell’offerta di servizi nella sua versione originaria, sono stati utili, ma non risolutivi: i contratti salariali nazionali ancora prevalgono e, ora, si contesta anche la qualità dell’offerta di lavoro interna in occasione dell’ondata di immigrazione. La circolazione dei capitali, possibile sulla carta, non funziona perché sopravvivono in materia legislazioni nazionali frammentate e contraddittorie. La profonda diversità dei trattamenti fiscali è il simbolo principale dell’inesistenza di un vero mercato unico. La politica fiscale “compensativa” è assai modesta e non orientata allo sviluppo comune, ma lasciata in mano agli Stati membri; ora si sostanzia sempre più nell´imposizione di vincoli restrittivi, applicati meccanicamente, che hanno dato vita all’Europa “delle regole”, con pochi ideali. Il quadro non è certo dei più rassicuranti per il nostro, come per l’altrui futuro.
 
La mia tesi è che il primo dovere dei gruppi dirigenti di un Paese il quale, non certo per sua sola volontà, non converge verso l’unione politica europea è quello di tutelare gli interessi nazionali. Il problema che dovrebbe essere oggetto di messa a punto è quindi se questi interessi trovano o meno accoglienza nell’attuale assetto istituzionale europeo o se vada richiesta una modifica migliorativa; la quale, se negata, porterebbe a una denuncia dei Trattati vigenti. La risposta dei fautori della permanenza ad ogni costo nell’attuale Ue è che, se dovessimo solo ipotizzare questo sbocco, il Paese andrebbe allo sbaraglio. A parte obiettare che questa affermazione ha molto poco di quell’europeismo ideale a cui si appigliano, mi distinguo da loro perché ho più fiducia di quanta essi non abbiano nelle capacità di adattamento e di ripresa degli italiani e nelle possibilità di stabilire nuove alleanze internazionali (come gli altri Paesi europei vanno facendo, in barba alla politica estera comune). Come pure si basa sulla ragionevole valutazione che i Paesi europei avvantaggiati dall’attuale assetto istituzionale sarebbero i più interessati, di fronte a una spaccatura dell’Europa, a riequilibrare i patti per non perdere i benefici.
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