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Non è primavera

L’inattesa comparsa di una “primavera araba” ha presto acquistato i connotati meno rassicuranti di una epidemia di ribellioni, dai possibili più estesi esiti destabilizzanti. Le relative ripercussioni andranno pertanto – per quanto possibile – contenute ed incanalate con cura ad opera dell’intera comunità internazionale. Se comune è la diagnosi del generale stato febbricitante, diverse dovranno necessariamente essere le specifiche terapie, che tengano conto della diversa costituzione socio-economica di ogni paziente, dalla sua specifica capacità di reagire alle sollecitazioni interne ed esterne rivoltegli.
 
Si può anzi argomentare che non di vere e proprie rivoluzioni, di un fondamentale rigetto dell’ordine costituito, si stia trattando, bensì piuttosto di manifestazioni di insofferenza per condizioni socio-economiche non più sostenibili. Di giustizia distributiva, si potrebbe dire, piuttosto che di libertà di espressione individuale, secondo le antiche tradizioni di quelle società, che una recente “dichiarazione araba dei diritti umani” declina in modo diverso da quella di stampo illuminista. La constatazione più immediata appare comunque essere l’emarginazione non soltanto delle impostazioni islamiche fondamentaliste, ma degli stessi alibi anti-israeliani e anti-americani a lungo sventolati come denominatore comune. Ciò che richiede quindi una maggior attenzione alle specifiche condizioni interne di ogni Paese arabo.
È sintomatico che la scintilla sia partita da due nazioni, la Tunisia e l’Egitto, dalla conformazione statuale più antica e consolidata, dalle quali ci si può pertanto attendere una evoluzione più lineare. Diversa, all’estremo opposto, è la condizione della Libia, storicamente priva di strutture istituzionali, unificata soltanto dalla breve colonizzazione italiana, che Gheddafi ha deliberatamente mantenuto evanescente (fallita?) con la sua Jamahiria. In situazioni intermedie, ognuna a suo modo, rimangono le altre nazioni arabe, rette alcune da antiche monarchie islamiche, altre da sistemi altrimenti autoritari se non propriamente dittatoriali, ancora prive tutte, a vario titolo, di quel pluralismo partecipativo che, sulle macerie dei vari esperimenti di socialismo arabo, parrebbe indispensabile per accogliere il seme della democrazia.
 
Lo Yemen è forse il caso più critico, per la sempre difficile convivenza fra diverse tribù ribelli, la risultante infiltrazione di al Qaeda e dei salafiti, e i conseguenti maggiori rischi di destabilizzazione in un’area della massima importanza geo-strategica, dirimpetto ad una Somalia disintegrata, rifugio di novelli pirati. Nel Golfo, in condizioni diverse dal Qatar e dagli altri emirati federati nell’Uae, il Bahrain è l’unico ad essere privo di risorse petrolifere, e pertanto accudito dai governanti sauditi che ne assicurano la sopravvivenza economica e lo stesso ordine pubblico interno scosso dalla discriminata maggioranza sciita. All’Arabia Saudita, ancora stordita dagli effetti della sua sconsiderata politica di diffusione del wahabismo, viene attribuito il compito di ritrovare, d’intesa con gli Stati Uniti, la sua funzione di perno della stabilità peninsulare. Più complessa la situazione più a nord, nel “crescente fertile” dalla Mesopotamia al Mediterraneo dove tutto, anche la crisi israelo-palestinese, sembra dover ruotare attorno alla situazione politica in Siria. La diversità confessionale ed etnica della sua società dovrebbe finalmente indurla a liberarsi dalle scorie di un passato militante che l´ha asservita alle mire iraniane e all’intransigenza di Hezbollah in un Libano parimenti eterogeneo. Lo stesso Iran potrebbe essere ormai condizionato dalle ripercussioni dei sommovimenti nei suoi vicini arabi, e decidersi a ridimensionare la propria sovraesposizione regionale. D’altronde gli stessi filoni ideologici transnazionali paiono essersi sfilacciati: poco incisiva parrebbe infatti ad esempio la solidarietà politica fra sciiti dalle diverse estrazioni nazionali.
 
La prevalente preoccupazione occidentale, in primis dell’Europa, deve essere quella di fungere da elemento catalizzatore, nell’assecondare il raggiungimento di un qualche grado di stabilità a livello sub-regionale non più, come avvenuto sinora, nell’acritica accettazione delle condizioni politiche locali, bensì concorrendo all’auspicata loro riforma con un processo di più sostenibile collaborazione ed interscambio. Per liberalizzare quella società si dovrà iniziare col liberarne le economie dalla rete di connivenze clientelari. La Commissione europea ha appropriatamente subito reagito dichiarando ampia disponibilità, ma ribadendo la condizionalità della sua “politica di vicinato” impostata nel lontano 2003: le prospettive di una maggiore integrazione economica con l’Unione – veniva già allora detto – devono considerarsi “il corrispettivo di concreti progressi indicativi di valori condivisi ed effettiva attuazione di riforme politiche, economiche ed istituzionali”, in particolare mediante il “consolidamento della partecipazione e rappresentatività politica”. Vi è quindi da sperare che gli strumenti istituzionali del “processo di Barcellona” del 1995 e della “Unione per il Mediterraneo” del 2008 possano liberarsi dalle secche nelle quali la riluttante rispondenza dei loro destinatari li ha sinora arenati.
 
Va infine considerato che il Trattato di Lisbona sollecita ormai l’Unione a manifestarsi non più soltanto mediante programmi di sviluppo socio-economico, ma anche in termini strategici. È soprattutto nel proprio immediato vicinato che l’Europa deve rendersi meglio compartecipe nell’assicurare adeguate condizioni di stabilità e sicurezza. Il protagonismo di Francia e Regno Unito nella vicenda libica non va considerato, come i più hanno sommariamente fatto, come una lesione della solidarietà europea, ma invece proprio in funzione del ruolo trainante nella politica estera e di sicurezza comune che loro compete se non altro per la loro posizione di membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Nelle molteplici transizioni odierne, la coerenza dell’Unione va costruita, dimostrata caso per caso, non si può presumere né pretendere.
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