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E se Obama perdesse?

Al momento la probabilità che Barack Obama perda le elezioni presidenziali nel novembre 2012 è piuttosto elevata, pur essendo una prospettiva ancora rovesciabile. Il risultato elettorale avrà importanza cruciale su due temi di rilievo per gli interessi europei: (a) ripartenza o meno della locomotiva economica americana che è ancora il traino principale della domanda globale; (b) riorganizzazione del G3 mondiale.
 
Vediamo per prima cosa lo scenario elettorale. Obama – in base a tutti i rilevamenti demoscopici correnti – ha perduto l’elettorato centrista. È imputato di incapacità in relazione al compito di accelerare la ripresa dopo la grave recessione del 2008-‘09. La speranza che l’economia migliori in tempo per utilizzare tale dato in campagna elettorale non è infondata. Ma tale miglioramento, ormai, sarebbe attribuito più alla forza dell’America che non alle scelte di Obama, valutate dai più come depressive o inefficaci. La probabilità che Obama possa vincere perché avrebbe di fronte un candidato repubblicano debole non è irrilevante. Ma i repubblicani sono pronti a questa evenienza rinforzando il ticket con un candidato vicepresidente capace di dare le ali mancanti al candidato primario.
 
Boom economico con vittoria repubblicana?
Certamente una vittoria repubblicana, amplificata dalla maggioranza nei due rami del Congresso, darebbe un impulso di fiducia all’economia. Al momento le aziende sono piene di liquidità ma non la investono per l’incertezza dovuta all’ambiguità sul piano fiscale e regolamentare dell’amministrazione Obama. Inoltre la riforma del sistema assicurativo sanitario (che non è stata una riforma della sanità) ha aumentato i costi delle piccole imprese e delle aziende commerciali e disincentivato i loro investimenti, questo tra i motivi principali della ripresa troppo lenta dell’occupazione oltre alla perdurante crisi del credito e del settore immobiliare.
Un’amministrazione repubblicana certamente rimuoverebbe tale ostacolo, ridurrebbe i costi e le regolazioni e darebbe equilibrio al bilancio attraverso tagli di spesa pubblica. Ciò ricostruirebbe la fiducia nel mercato stesso facilitando la trasformazione dell’enorme liquidità ora congelata in un’alluvione di investimenti. Se così, sarebbe boom in America e, a traino, per il resto del mondo. Probabilmente ciò indurrebbe una bolla di inflazione e nuovi problemi, ma risolverebbe quelli in corso. In sintesi, una vittoria repubblicana con un programma di riavvio della libertà di mercato farebbe tornare l’ottimismo economico che ora manca. E probabilmente questa profezia sta contribuendo a minare le speranze di Obama.
 
G3 dominato dal G2 euro-americano
La novità del 2011 è stata l’inversione delle relazioni sino-americane. Nel 2009 Obama dichiarò l’irrilevanza del G7, cioè degli europei, per favorire un G20 in realtà configurato come ambiente per un G2 sino-americano. La Germania, sempre più ricattabile dalla Russia per le forniture energetiche e dalla Cina per i megacontratti industriali, si infilò come terza potenza con inclinazione più euroasiatica che atlantica, dando vita ad un G3 dove l’America si trovò in minoranza, per esempio sulla rilevante questione di limitare i surplus degli esportatori verso l’America nel G20 di Seul. Un po’ per questo motivo, molto per la difficoltà di trovare convergenze con la Cina e parecchio in vista di una campagna elettorale in un ambiente di opinioni dove la maggioranza degli americani è ostile a Pechino, nella seconda metà del 2011 l’amministrazione Obama ha iniziato a dare segnali aperti di contenimento dell’espansione cinese nel pianeta e di dissuasione nei confronti della Germania-Europa per renderla meno filocinese, per esempio l’eccesso di aggressione all’eurozona. Ma non ha cercato un G2 euroamericano, lasciando il G3 un luogo indeterminato di relazioni variabili tra i tre grandi attori geopolitici e geoeconomici. L’eventuale vittoria repubblicana potrebbe portare ad un accordo più strutturato tra America ed Europa in funzione anticinese. La posizione repubblicana è più attiva, pur compressa dall’esigenza di soddisfare l’elettorato neo-isolazionista, e molto probabilmente cercherà di includere l’Europa in un’alleanza più stretta e a ridare rilevanza alla Nato. Ciò conviene agli europei sia in relazione al mondo, perché li dota di più forza negoziale via G2, sia in riferimento all’ambiente intraeuropeo perché il ritorno dell’America in Europa conterrà lo strapotere tedesco con beneficio di tutti.
 
Un’alleanza privilegiata italo-americana nel Mediterraneo
Il nuovo modello americano di impero meno costoso implica la creazione di mandati proconsolari a potenze regionali amiche. La Francia si è candidata ad averlo per il Mediterraneo e l’Africa, tra l’altro doppio in quanto combinato con la candidatura a difensore del mondo islamico sunnita (saudita) nel conflitto con quello sciita iraniano. E con Obama ci è parzialmente riuscita con compressione degli interessi italiani nell’area. Obama, spesso in contrasto con il segretario di Stato Clinton, ha trattato la regione in modo ideologico, per esempio favorendo troppo l’elemento sunnita, comportandosi da attore interventista entro l’islam come se ne volesse essere il riformatore, per esempio destabilizzando regimi filo-occidentali arabi. Ma il Mediterraneo è troppo complesso per essere ordinato attraverso politiche di potenza come quelle tentate da Parigi (e Londra) su mandato obamiano, l’Africa caso ancor più difficile. Parigi, inoltre, ha divergenze con la Turchia, attore principale nell’area dopo la svolta neo-ottomana. Inoltre ha preso una posizione troppo pro-sunnita ed anti-iraniana (mentre Berlino sostiene sottobanco l’Iran). Roma ha da sempre un approccio più compositivo, in grado di dialogare con tutti. Tale approccio potrebbe essere più apprezzato in una Washington meno ingaggiata ideologicamente nell’islam, dove comunque la burocrazia imperiale mai ha dato fiducia alla Francia, favorendo l’Italia nel diventare l’honest broker nel Mediterraneo e allo stesso tempo il partner Nato centrale nella regione, con relativi vantaggi commerciali. Alla fine la cosa che ci interessa di più. In conclusione, ci sono motivi sia per sperare sia per augurarsi – per l’interesse nazionale italiano e per quello occidentalista – che Obama perda.
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