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Ma è davvero così difficile tagliare la spesa pubblica

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“Bisogna adeguare le misure ai tempi ed alle circostanze”
Niccolò Machiavelli

“Non si può essere re ed essere innocenti”
Gianni Agnelli featuring Luigi XIV

Italia, novembre, tempo di legge di Stabilità. Tempo in cui, ogni anno, si parla di freddo in arrivo, foglie che cadono e spending review. Solo che mentre il freddo arriva davvero e le foglie le troviamo secche sulle strade, la spending review resta puntualmente nel libro dei desideri, al massimo declinata nella versione minimale (e spesso inefficace) dei tagli lineari. Soprattutto, a restare nel libro dei sogni sono i risparmi miliardari che ogni spending review promette e che puntualmente, a consuntivo, spariscono o si riducono di molto.

Adesso ci riprova il nuovo commissario straordinario per la spending review Carlo Cottarelli. Pedigree inappuntabile, Cottarelli ha stilato e presentato un programma che prevede tagli di spesa per 32 miliardi nei prossimi 3 anni, qualcosa come due punti percentuali di PIL che potrebbero e dovrebbero essere reinvestiti in quota parte nella riduzione del carico fiscale e – secondo me – molto di più in investimenti infrastrutturali di rete.

Gli scettici della spending review fanno notare quanto l’opera di taglio dei costi dello Stato sia improba proprio a causa della composizione della spesa pubblica. Su un totale di circa 800 miliardi di euro spesi ogni anno dalle pubbliche amministrazioni – più della metà del prodotto interno lordo – 220 miliardi se ne vanno in pensioni, 80 in interessi sul debito pubblico, poi ci sono la sanità e le spese sociali su cui, dicono, è difficile tagliare. Resterebbero circa 290 miliardi su cui intervenire, 162 dei quali per gli stipendi bloccati ormai da anni del pubblico impiego. E quindi, dicono i pessimisti, in realtà tagliare è quasi impossibile, anche perché le logiche di segmentazione giuridico/normativa del bilancio pubblico sono, per così dire, “vetero-testamentarie”.

In realtà non credo le cose stiano proprio così.

Anzitutto, vale la pena di sottolineare che la logica dei tagli lineari non è più tollerabile. In Italia si spende tanto ma, soprattutto, si spende male. I tagli lineari hanno l’effetto paradossale di penalizzare le strutture più efficienti e non incidere abbastanza su quelle che sprecano. Deprimono il merito e non contrastano a sufficienza la spesa clientelare. Il vero obiettivo della spending review non è tagliare una parte della spesa ma rendere efficace ed efficiente la parte restante. Altrimenti, prima o poi, ci saremo allo stesso punto.

Per incidere su questo versante, bisognerebbe finalmente portare avanti con coraggio e convinzione una seria battaglia di riqualificazione qualitativa della spesa attraverso la promozione dei costi standard e dei costi massimi, per evitare che lo stesso bene o servizio abbia costi diversissimi a seconda di dove viene acquistato dalla PA. Un’altra cosa da fare sarebbe l’introduzione delle stazioni appaltanti uniche regionali. Queste misure, introdotte ad esempio nel campo della sanità, comporterebbero risparmi molto rilevanti, senza incidere sulle prestazioni, come i primi esperimenti in questa direzione sembrano dimostrare. Certo, si pesterebbe qualche callo, ma si libererebbero risorse fondamentali.

L’altro versante sul quale impegnarsi a fondo è quello del debito pubblico. Il patrimonio mobiliare ed immobiliare dello Stato e degli Enti locali è il primo patrimonio al quale fare ricorso per abbattere il debito pubblico e con esso il servizio del debito. Pensiamo che una riduzione del debito di 250 miliardi comporterebbe risparmi sugli interessi per circa 10 miliardi l’anno, risparmi veri, immediati e strutturali. Anche qui le leve da adottare potrebbero essere diverse ma il vero problema (ancora una volta) non è tanto la difficoltà di andare a trovare spazi di manovra nella composizione della spesa pubblica italiana, quanto la volontà di andare a incidere su rendite di posizione radicate nel tempo.

Vedremo se il nuovo commissario vorrà (o potrà) seguire finalmente questa strada.

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