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Tutto quello che il Fatto non dice sul processone di Palermo

La sinistra politica e mediatica più forcaiola, schiacciata sistematicamente sulle posizioni delle Procure della Repubblica, specie se impegnate direttamente o indirettamente contro Silvio Berlusconi, soffre da qualche tempo di un’ossessione persino più forte di quella dello stesso Berlusconi. E’ l’ossessione di Giorgio Napolitano, avvertito come un intralcio al lavoro di quelle Procure, anche a dispetto della rappresentazione antiberlusconiana che del capo dello Stato fanno i “falchi” esterni e interni a Forza Italia.

LE TRESCHE INTRAVISTE DAL FATTO

Contro Napolitano si è arrivati a sospettare, per esempio sul Fatto Quotidiano con aria fintamente paradossale da parte di Marco Travaglio, che egli abbia trescato nella scorsa primavera per la rielezione al Quirinale allo scopo anche, o soprattutto, di potersi sottrarre al rischio di un coinvolgimento come testimone al processone di Palermo sulle presunte trattative di una ventina d’anni fra lo Stato e la mafia, nella stagione delle stragi.

LA VERSIONE DI TRAVAGLIO

Solo il  presidente della Repubblica, grazie alle sue prerogative di natura anche processuale, potrebbe rifiutarsi di testimoniare in giudizio – ha scritto Travaglio – senza rischiare atti di forza dei magistrati, sino ad opporvisi con un ricorso alla Corte Costituzionale. Che peraltro ha già dato ragione una volta a Napolitano, e proprio nei rapporti con la magistratura palermitana, disponendo di fatto la distruzione delle intercettazioni “casuali” nelle quali egli era incorso al telefono con uno degli indagati e poi imputati eccellenti del processone: l’ex presidente del Senato e poi ex vice dello stesso Napolitano alla presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, Nicola Mancino, ministro dell’Interno in un passaggio della stagione delle stragi di mafia e delle presunte trattative.

I SOSPETTI PALERMITANI

Gli inquirenti di Palermo, e i giudici che ne hanno accolto la richiesta, ma ai quali il presidente della Repubblica ha scritto a fine ottobre per esortarli a ripensarci ritenendo di non poter essere loro di aiuto ai fini del processo, sospettano che Napolitano sappia delle presunte trattative fra lo Stato e la mafia più di quanto voglia far credere. E ciò non tanto per i suoi ruoli passati di presidente della Camera, fra il 1992 e il 1994, e di ministro dell’Interno, fra il 1996 e il 1998, quanto per le confidenze ricevute al Quirinale dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio. Che l’anno scorso, dopo essere stato pure lui intercettato al telefono con Mancino e prima di essere morto di crepacuore per le polemiche che ne erano seguite, aveva offerto inutilmente a Napolitano le sue dimissioni in una lettera destinata a trasformarsi per il capo dello Stato in una grana, per quanto da lui stesso divulgata per lodevoli ragioni di trasparenza.

IL CASO D’AMBROSIO

In pratica, non potendo interrogare il morto, cioè il povero D’Ambrosio, che pure avevano potuto più volte ascoltare in vita nel corso delle indagini dopo averlo intercettato al telefono con Mancino, i magistrati danno quanto meno l’impressione di volerlo fare attraverso Napolitano. E ciò per via di un generico “Lei sa” scrittogli da D’Ambrosio a proposito di un “timore” ricavato anche dall’esame della vicenda giudiziaria in corso, compresi gli interrogatori che aveva subiti. Il timore, in particolare, di poter essere stato “considerato”, lavorando da magistrato – fra il 1989 e il 1993 – prima al Commissariato antimafia e poi al Ministero della Giustizia, un “ingenuo e utile scriba” di “cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi” fra lo Stato e la criminalità mafiosa e stragista.

LE IPOTESI

A D’Ambrosio era toccato, fra l’altro, di partecipare agli atti preparatori della nomina del suo collega Francesco Di Maggio a vice direttore del dipartimento delle carceri, poi sospettato di avere allentato il trattamento di pericolosi detenuti di mafia cedendo in proprio, o su imput di alti e altissimi piani istituzionali, alle ricattatorie pretese della criminalità stragista. Cui si sta peraltro cerando di attribuire nel processone, per esempio con le “rivelazioni” del pentito Nino Giuffrè, anche la decisione di avere interrotto le stragi non tanto per ciò che sarebbe già riuscita a strappare allo Stato, quanto per ciò che si aspettava da Berlusconi, tramite Marcello Dell’Utri, e dalla sua clamorosa vittoria elettorale nel 1994.

LA VOGLIA DI D’AMBROSIO

Ciò che, della lettera di D’Ambrosio, gli inquirenti di Palermo non hanno voluto tenere conto reclamando la testimonianza di Napolitano è il carattere polemico di un suo presunto e “ingenuo” contributo ad un cedimento dello Stato nella lotta alla mafia all’epoca delle stragi. Polemico perché il povero D’Ambrosio, commentando di fatto il lavoro dei competenti uffici giudiziari dove gli era capito di essere interrogato, ma anche quello della commissione parlamentare antimafia allora presieduta da Giuseppe Pisanu, aveva confidato al capo dello Stato il rimpianto delle funzioni di magistrato inquirente da lui svolte in passato. Ed aveva esplicitamente espresso “la voglia” di tornarvi, evidentemente convinto di poterlo fare meglio di quanto avessero saputo o voluto fare in quel momento quanti stavano occupandosi delle presunte trattative fra lo Stato e la mafia. Una voglia su cui dovrebbero riflettere con spirito autocritico quanti invece vorrebbero ora usare la lettera di un morto, appunto D’Ambrosio, contro chi ha avuto forse solo il torto di sopravvivergli al Quirinale.

Francesco Damato

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