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Dolce e Gabbana: quante cose ci dice uno spot

Meglio, meglio ancora del Padrino. Meglio, meglio ancora dell’ape, della lapuzza cinquanta che la percorre in lungo e in largo. Meglio ancora dell’arancino e del cannolo. Il profumo di Dolce e Gabbana profuma di Sicilia e la sintetizza perfettamente. Almeno nell’immaginario. Almeno per il cappuccio della confezione che pare marzapane.

La Sicilia, è lei la donna protagonista dello spot. La Sicilia dello spot è protagonista del nostro immaginario, il solo luogo dove ciascuno di noi, noi siciliani veri, che parliamo poco, che ci commuoviamo in silenzio e di nascosto, esuli per definizione, la custodiamo. E ce la baciamo tornando piccoli, tornando bambini, in quell’anfratto ingenuo e innocente. L’Eden, il solo luogo in cui essa esiste. Vera.
Lo spot di Giuseppe Tornatore, musicato dal solito Morricone, è perfetto. Così come è perfetta la Villa Eleonora Nicolaci di Villadorata. Tutto è un concentrato. E non c’è migliore connubio dell’essenza che narra un’essenza. I bambini trasfigurazione di Cupido sono messaggeri di un dono d’amore. Un fiore. Il fiore di limone, delicato e odoroso, che l’amato invia all’amata. A Lia. Bianca, mora, bedda. Che mentre è baciata dall’innocenza del piccolo Cupido, il suo zito se lo talia un poco affruntata. I due si guardano e annusano il fiore facendo un gioco vano d’amore spartendosi, labbra su labbra, la rugiada umidiccia dell’essenza odorosa.
C’è il trambusto del raccolto, della terra che restituisce il lavoro di tante schiene. Il verde degli alberi carichi, traboccanti di limoni. Il trionfo dell’abbondanza, di una ricchezza che appartiene al mito. E che fa a pugni con le storture, le brutture e l’ozio storico e senza tempo di oggi.

Che importa, poi, che oggi i limoni al mercato te li pagano, se va bene, 10, 20 centesimi al kg. Che una cassetta da 20 kg, che per riempirla ci vuole un buon quarto d’ora, non vale che qualche euro. Anche io l’avevo l’agrumeto. E ho vissuto quel trambusto, là ai Bufali. Più gioco che lavoro perché, appunto, senza altre culture, senza grandissime quantità, lo sbattimento non vale la pena. Manco il sudore sulla canottiera. Manco il presidio Slow Food ci può contro la storia e l’economia.
E quindi non rimane che l’arte, la pellicola. Non ci rimane che stringerci nel ricordo che è la ricchezza più grande. E che è il mestiere del profumo.
Non ci rimane che vedere salire la lacrima dentro l’occhio come il livello del mare sull’oblò della terza classe da cui guardiamo il mare in cui con tutta l’Isola ci arricriamo a sprofondare nel mito. Perché solo nel momento felice dell’arte quest’isola è vera.

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