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Irap, ecco come abbatterla per far risorgere l’Italia. I consigli del renziano Bini Smaghi a Renzi

L’unico modo di ridurre il costo del lavoro, senza intaccare i salari, è di agire sulla tassazione. Da questo punto di vista è necessario un trattamento shock, come può essere l’eliminazione dell’Irap. Una operazione del genere avrebbe tuttavia un impatto rilevante sulle finanze pubbliche del paese.

La cancellazione dell’Irap – o un taglio equivalente del cuneo fiscale – potrebbe incidere sul disavanzo pubblico per circa il 2% del Pil. Va dunque affrontato il problema della copertura. Prima di esaminare questo aspetto è essenziale sottolineare che l’efficacia dell’azione, in termini di recupero di competitività, e di credibilità, dipende in modo cruciale dalla concentrazione dello sforzo in un settore specifico, ossia la tassazione del lavoro. Disperdere risorse su aree diverse, aumentando ad esempio voci di spesa pubblica, come le infrastrutture, o riducendo altre tasse, come quelle sui redditi (Irpef), vanificherebbe l’efficacia dell’azione.

Per dimostrare in modo credibile che l’intervento è risolutivo non solo per quel che riguarda la crescita ma anche la sostenibilità delle finanze pubbliche nel medio periodo, le risorse devono essere concentrate su un settore ben preciso. Gli interventi a pioggia non servono. Solo attraverso un trattamento shock su ciò che ostacola maggiormente la creazione di posti di lavoro si può generare fiducia sulla capacità del paese di riprendere a crescere e di generare risorse sufficienti per ridurre il peso del debito senza ulteriori interventi restrittivi.

Come viene effettuata la copertura di bilancio di una tale operazione? A grandi linee, la metà dell’importo, pari all’1%, può essere coperta attraverso misure fiscali di segno opposto, in particolare l’allineamento dell’imposizione sulle rendite finanziarie ai livelli europei, inclusi i titoli di Stato, e misure di riduzione della spesa, nell’ambito della spending review, in particolare la riduzione dei sussidi alle imprese.
Per quel che riguarda la parte rimanente, essa verrebbe finanziata con un maggior indebitamento. Ciò potrebbe comportare un aumento del disavanzo pubblico oltre la soglia del 3% prevista nel Trattato di Maastricht. Come affrontare questo problema? Non certo chiedendo una modifica dei parametri, perché antiquati. Ci vuole una strategia chiara, che sia convincente non solo per le istituzioni europee e gli investitori internazionali, ma anche per l’opinione pubblica del paese.

Può essere utile fare ricorso a qualche dato, prendendo a riferimento un arco di previsioni comprese tra quelle della Commissione europea e quelle ufficiali del governo italiano. Se una manovra di questo tipo venisse realizzata nell’ambito della legge di stabilità per il 2015, si partirebbe da una stima del disavanzo pubblico compresa tra l’1,8 e il 2,2%, a seconda delle previsioni, sulla base di una crescita economica compresa tra lo 0,6 e l’1% nel 2014 e tra l’1,2 e l’1,7% nel 2015, a fronte di un Pil potenziale sostanzialmente invariato. Il debito pubblico è previsto scendere dal 133-134% nel 2014 al 133-130% del Pil. In questo scenario, l’impatto aritmetico della manovra sarebbe di far salire il disavanzo di 1 punto di Pil e il debito di altrettanto. Ci sarebbe il rischio concreto di superare la soglia del 3% e di ritornare nella procedura di disavanzo eccessivo.

La domanda da porsi è se un tale scenario possa essere accettato dai nostri partner europei e dai mercati finanziari. La risposta è: dipende. Se questo tipo d’intervento segue la realizzazione concreta, e non solo l’annuncio, di almeno tre delle riforme indicate sopra e se viene tracciato un percorso chiaro per le altre, che sia sostenuto da un consenso politico ampio e duraturo, l’esito può essere favorevole. Certo, è necessaria un’azione diplomatica forte. Ma la proposta è coerente e corrisponde agli obiettivi che si pongono le istituzioni europee. Per un paese molto indebitato come l’Italia, l’essenziale è di assicurare la sostenibilità del debito pubblico nel medio periodo, cioè la capacità di farlo scendere in modo continuo, come richiesto dal Fiscal Compact. Cercare di ridurre il debito solo con misure di austerità non funziona, soprattutto per un paese che ha un potenziale di crescita basso – o quasi nullo – come quello italiano. Non solo perché quel tipo di misura comprime la crescita ma anche perché mantenere un surplus primario tale da garantire, in un simile contesto, una discesa continua del debito è politicamente difficile da attuare, se non impossibile.

La strategia che può proporre l’Italia, basata sulle riforme menzionate prima e su un recupero di competitività attraverso lo strumento fiscale, ha invece il vantaggio di produrre un effetto quasi immediato sul potenziale di crescita. Migliora in modo decisivo la sostenibilità del debito nel tempo. Anche se si verificasse un aumento del disavanzo nel breve periodo, ciò sarebbe temporaneo, soprattutto se misurato al netto della componente ciclica, tenendo conto del nuovo maggior potenziale. L’aumento temporaneo del debito potrebbe essere contrastato realizzando proprio in quella fase le privatizzazioni previste per i prossimi mesi, come parte integrante del pacchetto di riforma.

In realtà, uno scenario del genere è esattamente quello che si aspettano i partner europei, che ben sanno che ciò che importa per l’Italia, e per l’area dell’euro nel suo complesso, è la ripresa della crescita, da realizzarsi attraverso riforme in modo da mantenere sotto controllo i conti pubblici. «Riforme in cambio di più tempo e spazio per realizzare l’aggiustamento fiscale» è la formula che stanno cercando di realizzare tutti i paesi. È peraltro in linea con le decisioni prese dalla Commissione europea nel concedere uno o due anni in più alla Francia e alla Spagna per rientrare sotto il 3%. Nel caso dell’Italia il problema è più complesso a causa del debito pubblico elevato. Per questo è necessario il frontloading delle riforme. Le riforme – non sotto forma di annuncio ma di atti concreti – sono la precondizione per mettere in atto le misure fiscali mirate a recuperare competitività e far crescere nuovamente l’economia.

L’occasione per inquadrare questa strategia si presenta con la definizione dei cosiddetti contractual arrangements – accordi contrattuali tra l’Unione e i paesi membri – che secondo la decisione del Consiglio europeo del dicembre 2013 dovrebbero essere concordati nella seconda metà del 2014, sotto presidenza italiana. Il contratto è il modo per formalizzare, nell’ambito europeo, l’impegno dell’Italia a proseguire le riforme e al contempo rimodulare il percorso di risanamento delle finanze pubbliche. Un tale modello può essere esteso ad altri paesi, e rappresentare una chiave di uscita dalla retorica sull’austerità per dare concretezza alle politiche della crescita.

Avviando le riforme e realizzando una strategia di sviluppo complessiva, l’Italia può nuovamente sedersi al tavolo negoziale con la credibilità necessaria per chiedere all’Europa di ravvivare il percorso d’integrazione. Vanno innanzitutto riaperti alcuni accordi già formalizzati, come quello sull’unione bancaria, per migliorare le componenti che lasciano a desiderare, a cominciare dai processi decisionali. Bisogna poi rilanciare un’azione decisa per rafforzare l’integrazione economica. Uno dei punti essenziali è il settore energetico, dove si deve realizzare un mercato veramente integrato dove possono partecipare in modo competitivo gli operatori di tutti i paesi, con l’obiettivo di ridurre i costi per gli utilizzatori finali, e far fronte alle sfide che vengono dall’altra parte dell’Atlantico.

A tal fine vanno stanziate risorse per completare le infrastrutture e deve essere armonizzata la regolamentazione, in particolare per quel che riguarda le tariffe. Nel settore dell’occupazione va rafforzato il sostegno ai fondi di garanzia per l’occupazione giovanile. A regime va predisposto un meccanismo di finanziamento comune della disoccupazione, legato ai progressi fatti nelle riforme strutturali. Bisogna inoltre favorire la creazione di uno strumento finanziario unico, inizialmente garantito da titoli dei paesi membri, che consenta di rendere più liquido il mercato finanziario e di agevolare le politiche d’intervento della Bce, come era stato fatto con l’ecu privato prima dell’unione monetaria.

Una Italia capace di cambiare, di riformarsi, riesce anche ad incidere in Europa, non minacciando di «battere il pugno sul tavolo» ma avanzando proposte concrete e partecipando attivamente ai tavoli strategici dove si decide il futuro dell’Unione. Una Italia più forte rende l’Europa più forte, più capace di venire incontro alle esigenze dei suoi cittadini. Questo è l’impegno. Ma sta in noi.

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