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Ecco perché la Nato guarderà al Mediterraneo. Parla Manciulli (Pd)

Sicurezza nell’area mediterranea e mediorientale, in particolare dell’evoluzione del terrorismo jihadista, del fenomeno dell’immigrazione, delle crisi siriana, libica e del Middle East.
Questi alcuni temi di un seminario del Gruppo speciale Mediterraneo e Medio Oriente dell’Assemblea parlamentare della Nato, che si è svolto dal 2 a 4 ottobre a Catania.

A prendervi parte, spiega in una conversazione con Formiche.net Andrea Manciulli, vice presidente della commissione Esteri della Camera e Presidente della delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare della NATO, oltre cento parlamentari dei Paesi che fanno parte dell’organizzazione, ma anche i rappresentanti dei governi dei Paesi del Mediterraneo associati alla Nato, dei Paesi del Golfo, della sponda Sud e di diverse altre organizzazioni internazionali. Ecco cosa si è detto.

Onorevole, di cosa si è discusso nel seminario di Catania?

Avevamo come obiettivo quello di discutere di Mediterraneo e comunicare, soprattutto a seguito del vertice di Newport, che si è aperta una nuova fase nella quale la Nato guarda maggiormente all’area.
Finalmente si inizia a discutere dei problemi della regione guardandoli nel loro complesso. C’è un filo conduttore che lega queste crisi, dalla Siria all’Irak, arrivando al Sahel e alla Libia, ed è opportuno affrontarle pensando a una strategia ampia.

A quale strategia pensa? E Immagina un coinvolgimento della Nato?

Credo che l’Alleanza non sia il soggetto ideale per affrontare questo problema. Non bisogna correre il rischio che quanto sta accadendo possa essere confuso con una contrapposizione tra Occidente e mondo musulmano. Non siamo di fronte ad una guerra di religione, bensì ad un pericoloso gruppo terroristico che va fermato anche e soprattutto con il sostegno dei Paesi arabi. Ecco perché è stato importantissimo che a Catania ci fosse non solo la Turchia, che ha comunque mostrato una posizione più matura rispetto al problema, ma anche Stati arabi come Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti e africani interessati dal problema come Ciad e Mauritania. L’Italia viene considerata un attore fondamentale per risolvere questa crisi, anche in virtù di un passato coloniale meno ingombrante in Medio Oriente. Bisogna che i Paesi arabi superino le resistenze del passato e che l’Occidente commetta meno leggerezze.

A quali errori fa riferimento?

In alcuni ambienti c’è stata una sottovalutazione del fenomeno, che oggi scopriamo dirompente. E talvolta, in passato, si è deciso di appoggiare con troppa fretta una fazione, piuttosto che un’altra, scoprendo solo in seguito a caro prezzo che si trattava di una lettura disattenta e semplicistica. Se si fosse cercato prima di fare un lavoro diplomatico e mettere allo stesso tavolo i Paesi arabi, come il nostro Paese sostiene da tempo, forse oggi la situazione sarebbe migliore.

In una situazione così fuori controllo, un Paese già instabile come la Libia può costituire un catalizzatore regionale per i jihadisti?

I terroristi dell’Isis cercano di creare uno Stato che sia da un lato un posto fisico, dall’altro un luogo ideale per il quale lottare e portare avanti la loro guerra santa. Questa idea è il lievito della protesta, che punta a far presa in tutti i Paesi musulmani, compresa la Libia, ancora più vulnerabile di altre realtà perché instabile. È per questo che la comunità internazionale, Bruxelles in testa, dovrebbe ascoltare i nostri appelli e non considerare ciò che accade a Tripoli solo un problema dei Paesi confinanti o che si affacciano sul Mediterraneo. La minaccia dell’Isis potrebbe potenzialmente diffondersi ovunque.

Tra i Paesi musulmani, quali sono quelli più a rischio contagio?

Un segnale indicativo lo danno i foreign fighter accorsi in Siria e Irak, un fenomeno che la Nato segue da vicino. Essi non provengono solo da Paesi occidentali, come spesso si è portati a credere, ma anche da quelli arabi. In questa speciale e poco confortante classifica, i primi tre Stati a fornire jihadisti al califfato di al-Baghdadi sono Tunisia, Giordania e Arabia Saudita.
A preoccupare non è solo la provenienza, ma anche la velocità e le caratteristiche con le quali i combattenti stranieri si stanno moltiplicando. Basti pensare che in Afghanistan si è arrivati a 10mila foreign fighter nel giro di 20 anni, con un’età media sui 30 anni. Oggi a lottare per l’Isis ci sono essenzialmente ragazzi tra i 18 e i 22 anni, per un numero totale di 12 mila terroristi accorsi in soli 3 anni.

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