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In che cosa sbagliano Grillo e Casaleggio

Nel suo Politico, scritto più o meno nella fase declinante della sua vita, dopo aver soggiornato a lungo in Egitto, in Cirenaica, a Siracusa, il grande Platone (Atene 427 – ivi 347 a.C.) espose le forme pure (e le degenerate) della democrazia, definendo questa il”governo del numero”, ovvero il “governo dei molti” o, ancora, il “governo della moltitudine”. Le tre versioni, apparentemente sinonime, assumevano in realtà significati diversi, benché traessero ispirazione dal medesimo principio: l’esercizio del potere affidato ad una maggioranza, non ad una minoranza di uomini, indipendentemente dall’etnia, dal censo, dall’età, dando per scontato che i minori (almeno dai 18 anni in giù) non potessero considerarsi cittadini esercitanti una volontà politica e che le donne lo fossero ancor meno.

Già 2.500 anni fa, dunque, la democrazia era conosciuta ad Atene e la si considerava nell’Ellade come “la meno buona delle forme buone e la meno cattiva delle forme cattive di governo”. Più esattamente Platone notava: “Sotto ogni aspetto [la democrazia] è fiacca, e non combina gran che di buono né di dannoso, in paragone all’altre forme, perché in essa sono sminuzzati i poteri di piccole frazioni, tra molti. Perciò di tutte le vere forme legali, è questa la più infelice mentre di tutte quante son contro legge, è la migliore; e se sono sfrenate tutte, è nella democrazia che mette maggior conto di vivere; invece se sono bene ordinate, è in essa che meno giova vivere”.

Platone era un filosofo, un teorico e, tuttavia, non era un astratto: nel senso che derivava le sue valutazioni dall’esperienza, un concetto che peraltro troverà precisazione molti secoli più tardi e in altra parte del mondo, con l’inglese John Locke, sul finire del XVII secolo postcristiano. Che è poi il secolo di fondazione della politica e della democrazia moderna dietro specifico impulso dell’illuminismo, quel movimento di idee che incontrò il favore particolare di pensatori laici, ma trovò sensibile anche un pontefice intellettuale come Benedetto XIV, il bolognese Prospero Lambertini, un erudito e scrittore che pacificò controversie interne alla Chiesa e attuò riforme religiose e civili.

Platone è oggi considerato il padre dell’utopia politica perché la sua democrazia, per inverarsi, pretendeva una scelta fra legalità e illegalità, sino a sembrare implicare una natura totalitaria, tipo la proibizione della poesia e della musica e l’esilio per poeti e musicisti. Altri nostri contemporanei si sono soffermati sul “comunismo” di Platone, usando criteri di classificazione francamente alquanto riduttivi e poco badando che il filosofo ateniese indicava soprattutto il ricorso a precise regole di comportamento non per livellare la condizione sociale di tutti i cittadini, quanto piuttosto per rendere stabile un ordinamento statale: come la Repubblica (ch’era anche il titolo di una sua opera controversa), ma insisteva sul “governo dei molti” in contrapposizione al “governo di uno solo”, cioè il monarca (o il console) assoluto. E ciò rende paradossale il fascino incontrato da Platone nel fascismo italiano.

Torna, specie in Italia, nei tempi che viviamo, un’altra versione della democrazia: la democrazia diretta; in altre epoche, anche non proprio remote, reclamata da estremisti radicali, che pensavano di realizzarla attraverso il ricorso permanente allo strumento del referendum; ed, attualmente, attraverso la diversità grillina che, in presenza di una oggettiva crisi delle rappresentanze, propone una rifondazione della democrazia per la quale “gli eletti devono comportarsi da portavoce”, mentre i cittadini dovrebbero essere “in grado di far dimettere il parlamentare che si sottrae ai suoi obblighi in ogni momento con referendum” (teoria firmata da Serena Danna e dovuta a Gianroberto Casaleggio, il guru del Movimento 5 Stelle).

Una democrazia diretta circoscritta a poche decine di persone che, attraverso twitter confermino o respingano le domande proposte da uno solo (il capo), è certamente una forma concreta inedita per organizzare un movimento politico protestatario e che non riconosce altri sistemi di convivenza politica: ma tutto può essere, salvo che democratico. Tant’è che il M5Stelle è continuamente alle prese con processi di tipo staliniano nei confronti di deputati o senatori o sindaci che non si attengano ai precetti di Grillo e Casaleggio. Come le cronache di questi giorni confermano.

La democrazia diretta via web (o altri strumenti elettronici, esistenti o futuribili), si chiami 2.0 o 3.0 e via di seguito, ha una funzione livellatrice, ma cancella un requisito essenziale perché si possa parlare di democrazia: la libertà di pensiero e d’azione dei singoli. Cioè il riconoscimento di una pluralità di opinioni che, di volta in volta, trovi una unità di rappresentanza nella condivisione di un progetto, non nell’obbedienza ad un imput dato da un individuo singolo deificato e capriccioso. Comunque, l’esperienza del M5S regge ancora in quanto collettore di antipolitica, antipartitismo e populismo, non perché indichi o realizzi un’utopia comunitaria. Però imitare la democrazia diretta come la volle l’Urss di Lenin, non è accostabile né al Platone utopistico, né al Platone sperimentatore, né alla democrazia rappresentativa, zeppa di contraddizioni ma ancora la più efficace come modello di condivisione politica libera e non coatta.

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