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Il Corriere della Sera, l’antipolitica e l’eversione

L’antipolitica, di cui tanto si parla moralisticamente in queste settimane, non nasce sotto i cavoli. E neppure la porta la cicogna nera. È un peccato originale risalente alla notte dei tempi, da quando è attestato, nel globo terrestre, un minimo di vita associata e di sfruttamento dell’uomo da parte di altri uomini. L’antipolitica è una forma di rigetto della politica corrotta, ridotta ad affarismo, disfatta dall’inefficienza e diventata esercizio di potere da parte di furbastri ed opportunisti.

È, dunque, sin dai tempi delle società primitive che si potrebbero catalogare forme di antipolitica: cioè di ribellioni civili contro politiche male condotte, arbitrarie, faziose via via che l’uomo ha attuato il proprio senso dei diritti e dei doveri come qualificanti ogni organismo associato, a principiare dallo Stato. Mentre la capacità critica e il rifiuto vero e proprio del potere com’era esercitato cominciarono a svilupparsi nel Seicento con l’illuminismo anche religioso, ma avendo alle spalle l’epoca dei Comuni e delle libertà municipali, decisivi in Europa.

Da questo punto di vista astratto, l’antipolitica non è il male assoluto; è una modalità di protesta che non si può reprimere in base a concetti morali, o religiosi, o soltanto ordinamentali e giustizialisti. Specie in regimi democratici, l’antipolitica può persino essere talvolta lecita e doverosa contro abusi e prepotenze del potere. Diventa tutt’altro quando si presenta sotto forma di violenza contro quanto è stabilito dalle relazioni civili in una società efficiente e pluralista. In democrazia occorre stare attenti ad attribuire una volontà antipolitica a chi non condivide l’opinione dei più, magari per squalificarlo agli occhi dei conformisti insediati nel potere o di corteggiatori interessati di chi quel potere formalmente esercita al momento.

Limitarsi a biasimare l’antipolitica solo quando essa appaia aprioristica (come suggerisce Ernesto Galli Della Loggia), può comprendersi in momenti di sdegno quasi generale verso le malefatte e le ruberie della politica. Ma non si può mai dimenticare che l’antipolitica è anzitutto una reazione sociale contro il degrado civile (e non solo morale) della politica. A maggior ragione ha senso considerare legittima l’antipolitica allorché, da tempo, la politica sia come scomparsa nella vita associata e sostituita da abusi e sfruttamenti ingiustificabili e contrari ad un sentire culturale comune.

È eversiva l’antipolitica? Certamente sì. Almeno quanto il populismo, il giustizialismo e soprattutto la pretesa di una diversità antropologica di una fazione rispetto al resto della società. Quanti si autoattribuiscono la qualità di partito degli onesti, in realtà, spesso, come insegnano le corruttele e le manifestazioni piazzaiole degli ultimi giorni, sono, nel proprio intimo, esattamente il contrario di ciò che vantano. Mentre il loro modo di pensare e agire rinfocola l’antipolitica, allontanando i cittadini (siano onesti o no) da una vita collettiva equilibrata e non faziosa.

È in particolare la pretesa di rappresentare gli onesti, intesi come entità antropologica diversa e superiore, che produce antipolitica o ne costituisce un aspetto speciale e incisivo in un corpo sociale. Se, poi, ci si accorge delle infiltrazioni mafiose nell’amministrazione pubblica solo per via di intercettazioni più o meno occasionali, vuol dire che, ultimamente, si è addirittura perso il senso di quanto l’antipolitica sia diventata strabocchevole e abitudinaria e ponga seri interrogativi sullo stesso funzionamento della giustizia. Non sulle leggi anticorruzione, che ci sono e non vanno ulteriormente appesantite nell’illusione che facciano da freno alla disonestà; ma nel non applicarle verso gli amici politici. Le cui origini combaciano (almeno in Italia) con primarie comprate e vendute come fossero un esercizio normale per la conquista del potere.

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