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Perché la Nato deve guardare anche alla Libia

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Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha recentemente commentato le due grandi sfide provenienti del fronte orientale, con la delicata situazione tra Russia e Ucraina, e da sud con l’espandersi del terrorismo di matrice jihadista, sottolineando che è la prima volta nella storia dell’Alleanza che due fronti di così elevata complessità sono aperti contemporaneamente.

L’attenzione prevalente è oggi sul conflitto russo-ucraino, anche a causa dei forti timori da parte dei Paesi dell’Est europeo, direttamente minacciati dalle politiche espansionistiche di Putin. Ciò non può e non deve tuttavia far ignorare che i fenomeni di espansione e di radicalizzazione del fondamentalismo islamico costituiscono già oggi un rischio non meno grave per molti Paesi dell’Alleanza e, in prospettiva, rappresentano una minaccia per l’intero Occidente.

La Nato si è indebolita, negli ultimi vent’anni, in termini di pura capacità militare, avendo peraltro sviluppato con successo altri tipi di azione: la lotta al terrorismo, la prevenzione dei conflitti e la gestione dei post-conflitti, il sostegno nelle situazioni di rischio umanitario.

Al tempo stesso, la natura dei conflitti si è progressivamente trasformata, tanto che oggi si parla sempre più di “guerra ibrida”, che viene combattuta, cioè, con un mix di strumenti: militari, terroristici, propagandistici, informatici. Un tipo di conflitto che richiede un impegno su fronti diversi e variegati, meno prevedibili e per questo ancora più pericolosi che in una guerra convenzionale.

Affrontare simultaneamente due conflitti ibridi, su fronti così distanti e diversi, è una sfida improba anche per la forte Alleanza Atlantica: basta pensare ai teatri di conflitto che presentano caratteristiche geografiche, economiche, socio-culturali e politiche radicalmente diverse, e al fatto che nel caso dell’Ucraina l’avversario è solo la Russia di Putin, mentre nella minaccia terroristica sono coinvolti decine di attori, ciascuno dei quali con aspettative, strategie, interessi economici radicalmente diversi, se non antitetici.

Lo scenario attuale comporta perciò rischi di spaccatura all’interno dei 28 Paesi membri della Nato sulle priorità da perseguire e sulle modalità con le quali intervenire. Ciò indirettamente rappresenta, in qualche modo, una opportunità per chi ha interesse a indebolire la Nato.

In primis lo stesso Putin e i fondamentalisti del califfato, che, per ragioni diverse e in modi differenti, trarrebbero indubbi vantaggi da una Nato più debole e da un’Europa meno credibile. Ma anche altri soggetti, apparentemente forse non così interessati ma in realtà profondamente coinvolti nella competizione globale e strutturalmente avversi alle politiche occidentali: l’Iran, la Palestina, altri Paesi dell’area medio orientale e nord africana, la stessa Cina.

Il fronte sul quale potrebbero verificarsi divisioni in seno alla Nato è certamente il necessario e difficile equilibrio nella difesa degli interessi di tutti gli Alleati. I governi che ritenessero di vedere sottovalutate le proprie esigenze di sicurezza avrebbero seri problemi a fronteggiare le reazioni della propria opinione pubblica, sempre più sensibile su questi temi.

Negli ultimi mesi è stato messo in campo un grande sforzo per la predisposizione e la attuazione del “Readiness Action Plan – RAP”, che prevede un rafforzamento della capacità di reazione rapida. Il RAP è pensato per la crisi ucraina ed ha lo scopo di rassicurare i Paesi che si sentono minacciati dalla Russia e di rappresentare un deterrente per la Russia.

Ma oggi il tema della rassicurazione e della deterrenza non è meno importante per il fronte sud. I cittadini dei Paesi mediterranei della Nato, in particolare l’Italia, si sentono oggi sempre meno sicuri, e la sicurezza è troppo importante per la sopravvivenza stessa della libertà. Allora occorre che il RAP sia declinato anche per la regione mediterranea? E’ probabile, ma certamente più complicato, articolato e impegnativo.

Questo è un tema dirimente, dal momento che interroga profondamente tutti e ciascuno dei Paesi membri dell’Alleanza Atlantica. Quello che è in gioco è la sicurezza dell’intero occidente. Non dimentichiamo che la molla che fece scattare l’operazione Afghanistan fu la traumatica presa di coscienza da parte del popolo americano del venir meno delle condizioni di sicurezza interna, che venivano date per scontate, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.

Ma proprio perché la posta in gioco è così alta, la Nato non si dividerà: sappiamo che la sua autorevolezza e credibilità (che ancora esistono anche se vanno rafforzate) sono garanzia per tutti i nostri cittadini. Del resto, l’allargamento che si è realizzato negli ultimi anni e il forte interesse all’adesione da parte numerosi altri Paesi dimostrano che l’immagine della Nato è più viva che mai. Sta a noi non disperdere questo patrimonio.

Tenere unita l’Alleanza è solo un compito nostro, e solo noi potremmo rischiare di dividerla. Per evitarlo, però, occorre un serio impegno su alcuni punti ben precisi:

– non sottovalutare i rischi che provengono da diversi fronti

– implementare la strategia di rafforzamento e la capacità di deterrenza su tutti i quadranti strategici

– rassicurare tutti i cittadini che si sentono minacciati, a est come a sud

– rafforzare l’immagine positiva acquisita con l’ottima gestione dei post conflitti, come in Afghanistan, senza ripetere gli errori – peraltro responsabilità dell’intera comunità internazionale – compiuti in Libia

– sostenere la linea che prevede dapprima uno stop alle riduzioni delle spese per la difesa e poi il loro incremento, per arrivare a percentuali omogenee tra tutti i Paesi.

Quest’ultimo obiettivo, fortemente sostenuto da Stoltenberg, è in realtà una precondizione necessaria. Per poterlo realizzare occorre che la politica sappia prendersi le proprie responsabilità, spiegando ai cittadini che i soldi impiegati per la difesa non costituiscono spese inutili ma rappresentano investimenti fondamentali per garantire la sicurezza.

E forse oggi i cittadini, dopo i tragici attentati che stanno insanguinando l’Europa, sono più disponibili ad uscire da quella logica populista e falsamente pacifista che ci ha condotti a eliminare – come acutamente osservato da Galli della Loggia – il concetto stesso di guerra dalle nostre categorie mentali.

Le guerre purtroppo esistono e sono sempre più vicine ai nostri confini.

Paolo Alli è componente della commissione Affari esteri e vicepresidente dell’Assemblea parlamentare della Nato

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