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Isis, il jolly curdo nella mani di Washington

L’occupazione da parte delle Unità curdo-siriane di Protezione del Popolo (Ypg) della città di Tal Abyad a est di Kobane, ha una notevole importanza. Mette in comunicazione due province curde sul confine turco. Interrompe la via più facile per collegare Raqqa, la “capitale” dell’Isis in Siria, con la Turchia.

VITTORIA POSSIBILE

Lungo essa, transitano i rifornimenti e i volontari necessari all’Isis per ripianare le perdite in Siria e in Iraq. I curdi hanno dimostrato ancora una volta – dopo Kobane e Tikrit – che il Califfato possa essere vinto sul terreno. Beninteso, non è sconfitto. Dispone di consistenti somme di denaro. I suoi comandanti continuano a dare prova di flessibilità e capacità tattiche e logistiche. I suoi miliziani possiedono aggressività e combattono con fanatico coraggio.
Il successo curdo nel nord della Siria, pur essendo significativo, è però limitato. È derivato dal forte appoggio dell’aviazione Usa. È improbabile che da tattico si trasformi in strategico. Ben difficilmente, l’Ypg avanzerà da nord alla conquista di Raqqa. I curdi non combattono per vincere l’Isis, ma per i loro interessi nazionali. Per ora, almeno, hanno vinto anche grazie all’appoggio della popolazione curda delle zone di combattimento.

L’AUTONOMIA RICERCATA

Quelli siriani, vogliono l’indipendenza o, almeno, un’autonomia simile a quella di cui godono i curdi iracheni. Anche se i loro successi ne hanno certamente rafforzato l’identità sono tuttora divisi in clan e tribù in competizione fra di loro per il potere e la ricchezza. Il fattore che impedisce loro di divenire l’elemento determinante nella lotta contro l’Isis è costituito dall’ostilità che arabi e turchi hanno nei loro confronti.
L’Ypg è affiliato ai terroristi del Pkk (40mila morti in Turchia dopo l’inizio della sua azione armata nel 1984). È stato per lungo tempo neutrale nella rivolta contro Damasco. Ssecondo taluni avrebbe sostenuto anche direttamente il regime alawita di Basher al-Assad.
La Turchia non ha perso il ricordo della pace di Sèvres, che vide il suo territorio ridotto dalla costituzione di uno Stato curdo. Allora, quest’ultima era stata annullata da Kemal Ataturk. Oggi rischia di essere resa difficile, se non impossibile, dalla divisione esistente fra i curdi. Anche nello stesso Kurdistan iracheno, i clan Barzani e Talabani non collaborano completamente, benchè entrambi siano minacciati non solo dall’Isis, ma anche dagli arabi, sia sunniti che sciiti.

I TIMORI DI WASHINGTON

Gli stessi americani, pur consapevoli del fatto che i curdi sono i loro più affidabili alleati, sono restii a fornire loro gli armamenti pesanti necessari per sconfiggere lo Stato Islamico. Temono di rompere con la Turchia. Stanno a vedere che cosa avviene ad Ankara dopo il recente successo elettorale del partito curdo Hdp. Avrebbero interesse a riconquistare Mosul in Iraq e Raqqa in Siria. Se ciò avvenisse, lo Stato Islamico riceverebbe un colpo forse mortale.
Washington teme però la reazione di Baghdad e degli insorti sunniti siriani. È quindi indecisa. Non ha un piano strategico ben definito. Esso dovrebbe per prima cosa precisare quali siano gli assetti geopolitici del Medio Oriente nel dopo Isis e nel dopo Assad. Forse sperano che l’Hdp faccia un governo con l’Akp. La Turchia risolvendo al suo interno la questione curda – magari con la formula dello Stato bi-nazionale – potrebbe estendersi nelle regioni curde dell’intera “Mezzaluna Fertile”. Un’azione turco-curda sarebbe certamente appoggiata fortemente dall’Occidente. La sua possibilità dipende dalla capacità di cancellare dalla memoria le decine di migliaia di turchi morti negli attentati del Pkk.

LA RESISTENZA DELL’ISIS

L’Isis non è comunque in condizioni disperate. Continua a mietere successi sia in Iraq che in altri paesi, come in Libia e ora anche nello Yemen. Sfrutta magistralmente i vuoti di potere determinate dalle rivalità fra i vari gruppi e milizie, come in Mesopotamia quelle fra sciiti e sunniti e, in Libia, fra Tobruk e Tripoli. L’afflusso di reclute sia locali che provenienti dall’estero riesce, per ora, a colmare le consistenti perdite che gli infliggono i bombardamenti della coalizione a guida americana.
La strategia di Barack Obama di suscitare in Siria un nuovo “Sunni Awakening”, simile a quello del “surge” del generale Petraeus del 2007-08, è fallita. L’invio di altri 450 addestratori americani per addestrare le milizie tribali sunnite dell’Anbar non modificherà la situazione. Essere addestrati e ben armati è una cosa. Voler combattere è tutt’altra. Troppo profondo è il risentimento dei sunniti nei confronti della politica settaria seguita dal premier sciita al-Maliki. Per indurre i soldati a combattere occorre motivarli.

LA SCELTA CURDA

Sarebbe ragionevole che Obama abbandonasse la speranza di vincere l’Isis con l’aiuto sunnita. Teoricamente, potrebbe farlo in Iraq con le milizie sciite, inquadrate dai pasdaran iraniani, che però in Siria combattono per Assad. Gli restano i curdi. Ma essi combattono per i loro interessi, non per la stabilizzazione della regione, voluta da Washington. Un loro rafforzamento dovrebbe essere concordato con Ankara.
In caso contrario, creerebbe grossi problemi con la Turchia. Obama, riconoscendo le sue incertezze strategiche, non ha deciso quali obiettivi conseguire nella regione. Si limita a bombardare, sperando di logorare l’Isis. Il conflitto in Medio Oriente è destinato a durare ancora a lungo.

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