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Cosa penso del paper di Padoan sull’Europa

Che disdetta. Proprio il giorno in cui Pier Carlo Padoan presenta il suo ambizioso documento strategico sull’Europa, la Stampa pubblica le anticipazioni del rapporto di Bruxelles sull’economia italiana che potrebbe essere intitolato la fiera delle occasioni perdute. Nel frattempo, escono dati inquietanti: deflazione e stagnazione impediscono finora di centrare gli obiettivi economici del governo. La Commissione europea può essere ingenerosa sulla Renzinomics, ma ha ragione da vendere su due punti: l’Italia è ancora un pessimo luogo dove fare gli imprenditori e mollare la spending review è stato un errore strategico. Il primo punto determina la debolezza fondamentale del Paese, bloccato da bassa produttività e una produzione che non riparte; il secondo influisce in modo determinante sulla più gigantesca palla al piede: il debito già alto e che, fino a prova contraria, continua a crescere. L’intero sistema “è troppo esposto al rischio sovrano”, scrive il documento. E come dargli torto se ogni giorno politici, banchieri, industriali, e anche la gente comune, sono incollati ai movimenti dello spread?

Le bacchettate dell’Unione europea non cancellano naturalmente il documento Padoan. Il ministro dell’Economia ha fatto il lavoro che in molti (anche su Formiche.net) chiedevano al governo italiano: presentarsi a Bruxelles non solo con i pugni in tasca, ma con una chiara proposta di riforma di tutto quello (ed è tanto) che non va.

L’approccio è chiaramente neo-keynesiano: deficit spending, investimenti pubblici, condivisione dei rischi, assicurazione comune dei depositi, protezione del mercato del lavoro, un assegno di disoccupazione europeo, eurobond e persino un ministro delle Finanze comune, inteso più come un coordinatore e arbitro delle politiche fiscali nazionali, con la facoltà (addirittura!) di costringere i Paesi in surplus (la Germania) a spendere e ampliare la domanda interna. Sarà un capitolo da sogno del libretto dei sogni, ma è il requisito fondamentale della reciprocità, senza la quale è del tutto inutile immaginare altre cessioni di sovranità o costruire pinnacoli di quella cattedrale gotica e sbilenca, oberata di apparati burocratici, che viene edificata giorno dopo giorno a Bruxelles.

L’impostazione teorica e le proposte pratiche non piacciono ai tedeschi né alla maggioranza dei Paesi de facto satelliti della Germania. Ma il dossier non è fatto per loro, basta che lo considerino coerente e degno di essere preso in esame. Il vero obiettivo è creare consenso attorno a una linea di superamento ragionevole e moderato dell’austerità. Quando dice che bisogna lasciar perdere il Fiscal compact e badare solo al disavanzo (entro il 3% e non meno), Padoan cerca di agganciare la Francia e la Spagna che sono ancora al 4% e oltre. L’assicurazione sui depositi come accompagnamento inevitabile del bail-in viene sostenuta anche dai francesi che hanno messo in campo diversi cuscinetti finanziari prima di arrivare a intaccare i piccoli risparmiatori e, non sia mai, i depositi. Gli eurobond (tanto più finalizzati agli investimenti o a finanziare la risposta all’ondata migratoria) dovrebbero piacere a Juncker che li aveva proposti nel 2008 in tandem con Tremonti.

Riuscirà il “position paper” italiano a diventare un punto di riferimento? La risposta non dipende tanto dalla bontà delle proposte, ma da decisioni politiche condizionate a loro volta dal quadro generale. In primo luogo la Brexit. Se a giugno vincerà l’uscita britannica (o inglese perché bisognerà vedere cosa faranno quanto meno gli scozzesi) dalla Ue, tutte le buone intenzioni di oggi diventeranno i sogni infranti di domani. In secondo luogo, dovremo vedere come reagiranno l’élite francese e il Modell Deutschland alle proprie crisi interne, al montare del populismo (Marine Le Pen) o alla frana di alcuni pilastri economici in Germania che spinge verso il ricorso a salvataggi nazionali. C’è poi anche l’incognita politica italiana: Renzi uscirà rafforzato o indebolito dalle elezioni municipali?

Padoan ha costruito una piattaforma che segue la tradizione europeista dei piccoli passi avanti, della costruzione per tappe di una unione rafforzata. Fino a immaginare un ministro delle Finanze comune in assenza di una politica fiscale comune. No taxation without representation viene rovesciato perché ci sarebbe una figura politica senza il potere di imporre le tasse, ma con il potere di dire agli altri come farlo. Il rischio è che si crei un altro pasticcio: l’euro, la moneta senza Stato, verrebbe accompagnato da un’altra istituzione senza quel potere che ne giustifica l’esistenza e ne garantisce la legittimità. Oltre tutto oggi le cose stanno prendendo un’altra piega. L’Europa a più livelli implica un nocciolino duro all’interno del quale possa essere condivisa anche quella facoltà che la Ue lascia agli Stati nazionali perché a sua volta fondante della sovranità nazionale, cioè imporre le tasse ai cittadini. A patto però che i membri del club siano assolutamente omogenei e riconosciuti reciprocamente affidabili.

Padoan su questo avrebbe dovuto essere meno conciliante e non limitarsi a chiedere “more symmetry”. Le reciprocità implica che ci sia un sistema di controlli, ma anche di carote e bastoni per chi rifiuta di ridurre l’eccessivo sovrappiù del bilancio pubblico e della bilancia con l’estero (“excess savings surpluses”). Sul bail-in, perché non sostenere fino in fondo la Banca d’Italia, perché rinunciare alla sostanziale moratoria senza prima avere in mano qualcosa di concreto sulla protezione comune dei depositi? Mettere simmetricamente in relazione le due cose risulta inutile se ci si presenta alla trattativa con la pistola scarica. Ma non vogliamo fare la parte dei soliti cacasenno.

Se il documento viene davvero fatto proprio da Renzi, nessuno a Bruxelles potrà più dire di non sapere cosa vuole Roma. Che la tenzone cominci.

Stefano Cingolani

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