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Io, sindacalista, vi spiego in cosa sbagliano a volte i sindacati

Marco Bentivogli Mondoperaio Cnel

In Italia i non-iscritti beneficiano delle stesse prerogative degli iscritti e ne hanno una in più: quella di criticare qualsiasi cosa faccia il sindacato, perdendo la pazienza quando gli accordi tardano ad arrivare, senza mai prendersi la responsabilità di sostenerlo come fanno invece gli iscritti, contribuendo in termini partecipativi alla vita e al cambiamento del sindacato. I non-iscritti sono tra coloro che sostengono, furbescamente, che siamo la causa di tutti i mali, ma guai se il risultato della nostra azione, i contratti, non portasse benefici anche a loro. Il sindacato non piace? Bisogna sapere che non è di proprietà di nessuno, o meglio, il sindacato è di chi si iscrive. Chi lo vuole cambiare dovrebbe prima di tutto iscriversi e, in questo modo, portare idee nuove, diverse. Altrimenti è troppo facile, è la solita furbizia di chi critica, ma poi se ne approfitta.

Da operatore sindacale territoriale, tentavo costantemente di entrare in aziende dove alle assemblee partecipavano non più di 3 persone e nessuno si iscriveva al sindacato. In quelle aziende, appena scoppiata la crisi, improvvisamente non c’era più posto a sedere nelle assemblee e dalla fiducia totale e indiscriminata per il datore di lavoro si passava al radicalismo più marcato nei suoi confronti. A crisi conclamata è tutto più difficile, ma non ci sono scuse, secondo questi lavoratori noi abbiamo il “dovere” di risolvere i problemi anche per loro, anche se ci hanno sempre ignorato.

In termini qualitativi, la nostra rappresentanza presenta tre ordini di criticità: l’età media degli iscritti, la concentrazione prevalente nei luoghi di lavoro collettivo, sia pubblico sia privato, di dimensioni medio-grandi e, soprattutto, la generale tendenza al calo della sindacalizzazione. La media europea è passata dal 27% del 2000 al 23% del 2013.

Di fronte a queste sfide, spesso la risposta che si dà non è all’altezza. Un sindacato nemico delle riforme, dell’innovazione e del progresso è contro natura. Il sindacato, che era nato come soggetto di protagonismo civile e di protezione sociale e che, a questo scopo, si era messo alla guida delle riforme prendendo in mano la bandiera del progresso, è stato, negli ultimi anni, sempre più identificato come un custode della conservazione.

Ma questo conservatorismo non è in grado di reggere i mutamenti, il passaggio epocale dalla classe operaia della grande fabbrica fordista, alla fabbrica moderna, ai lavori, alla moltitudine dei lavoratori e all’individualizzazione. L’identità individuale delle persone è caratterizzata sempre meno da mutue similarità e sempre più da mutue differenze, dalla multiformità. Questo ha completamente cancellato il modo tradizionale che il sindacato aveva di collegarsi alle persone. Per fare il sindacalista oggi occorre fare attenzione alla complessità e rinunciare al “ma anche”: bisogna scegliere, individuare priorità, avere la capacità di formulare proposte unificanti, che tengano conto della dimensione “sartoriale” delle forme organizzative da mettere in campo.

“Non c’è nulla di più ingiusto di fare parti eguali tra diseguali”: un principio che è sempre stato vero, ma con l’attuale crescita delle disuguaglianze – frutto anche della crisi economica, finanziaria e sociale – proseguire lungo questa via aggrava la situazione, continuando a premiare chi ha già più tutele, un reddito più alto, una protezione sociale maggiore. Se non si sa scegliere tra settori industriali con reali prospettive su cui puntare, la scelta la farà il mercato, non sempre garantendo competitività e tenuta sociale.

Un sindacato che vuole essere credibile con i lavoratori, che si rifiuti di ingannarli, che resti al loro fianco nei momenti difficili, deve saper distinguere tra chi lavora bene e chi non lavora o fa il “furbetto”. Difendere i diritti, senza sanzionare gli abusi dei diritti, fa sì che alla fine gli abusi erodano i diritti.

Ad esempio, la legge 104 del 1992 sui permessi e agevolazioni per i disabili e i loro familiari sancisce un diritto sacrosanto, che oggi viene purtroppo messo in discussione per i troppi abusi che hanno portato persino a ipotizzare la cancellazione della legge.

Allo stesso modo, i peggiori nemici dei poveri sono i falsi poveri, destinatari di agevolazioni e di assistenza a cui non avrebbero diritto e protagonisti, in quanto evasori fiscali, di vere e proprie rapine a discapito degli onesti e dei poveri veri. Il sindacato tradizionale ha sempre avuto un rapporto difficile con la meritocrazia e la professionalità, che invece devono essere alla base della promozione e della tutela del lavoro.

Chi attaccava il privilegiato o il fannullone era accusato di fare un “compromesso al ribasso”, come se l’obiettivo sindacale potesse consistere nell’estendere privilegi immeritati o nel garantire la possibilità di fare i fannulloni.

In tempi difficili per il movimento sindacale è molto utile ritornare agli insegnamenti dei grandi maestri. Io ho avuto l’enorme fortuna di incontrarne più di uno, come ad esempio Gelmino Ottaviani, scomparso a febbraio di quest’anno: storico leader dei metalmeccanici della Fim Cisl di Verona, era prima di tutto un operaio, definito “profeta”, un testimone per tutto il movimento sindacale, un maestro per molti giovani sindacalisti.

Le sue parole, scritte nel 1953, suonano ancora come le campane di cui era un abilissimo suonatore e sono più attuali che mai: “Servono almeno un metro uguale per tutti, regole non scritte, da non cambiare in corsa, cipolle per resistere e senso del limite. Senso del limite. Perché se no, sei un poveretto, anche se sei miliardario”.

Gelmino ha insegnato il significato delle parole “dovere”, “responsabilità”, “libertà” e “limite”: un patrimonio di valore inestimabile che non bisogna sprecare.

Cercherò di raccontare la mia esperienza e dimostrare non solo che le generalizzazioni non aiutano mai il cambiamento, ma che il sindacato può essere per le nuove generazioni di ragazze e ragazzi una straordinaria opportunità per fare grandi cose, per dare gambe e cuore alle idee. So anche di essere fortunato perché sono cresciuto in un luogo, la Fim, in cui ho sempre trovato libertà e laicità. Vittorio Foa, storico e prestigioso segretario della Cgil, diede la più bella definizione della Fim: “La Fim è una bellissima organizzazione di minoranza che punta con forza alla primazia della categoria, consapevole che per centrare quell’obiettivo è condannata a pensare”.

Oggi la posta in gioco è ancora più alta: ad essere in gioco è il sindacalismo in quanto tale, la forma di solidarietà collettiva che i lavoratori si sono dati da duecento anni per la difesa e il miglioramento delle proprie condizioni. Oggi non basta “pensare”: bisogna anche sentire l’impulso e avere il coraggio di rimettersi in discussione.

Marco Bentivogli

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