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Le difficoltà di Renzi, il lavorìo di Franceschini e la ditta chiusa di Bersani

Fa sempre piacere la sensazione di ringiovanire, anche se a procurarla sono solo i ricordi sollecitati da qualcosa che assomiglia al passato, più che offrire qualcosa di davvero inedito. Osservare, per esempio, ciò che sta accadendo nel Pd in vista della riunione della direzione di lunedì –salvo un nuovo rinvio dopo la strage islamista di Dacca in cui è stato sparso anche sangue italiano – per l’annunciata riflessione sui risultati delle elezioni amministrative di giugno, e riandare con la memoria alle vicende della Democrazia Cristiana, alla vigilia delle sedute della sua direzione, o dei Consigli Nazionali, o dei congressi, è tutt’uno: leader veri o taroccati in agitazione, correnti inquiete come zanzare, contatti o messaggi più o meno cifrati con altri partiti e loro pezzi, retroscena che sopravvivono a smentite o precisazioni ambigue, e altro ancora.

Adesso, certo, tutto è più piccolo, o circoscritto. Non bisogna scomodarsi andando all’Eur, dove la sede della Dc aveva spazi più grandi di quelli angusti di Piazza del Gesù, e oggi di Largo del Nazareno. Allora bisognava muoversi ad un certo punto in tutte le direzioni, verso il centro oppure oltre il raccordo anulare, per inseguire attaccanti e difensori nei ristoranti, dove si tiravano le somme delle partite giocate o se ne impostavano di nuove. E noi cronisti ci facevamo la concorrenza tenendoci ben strette le nostre “scoperte”: altro che gli scambi di notizie e i pool nati nelle sale stampa dei tribunali, e vicinanze, quando i fornelli della politica passarono dalle sedi dei partiti negli uffici delle Procure della Repubblica.

Mi ha fatto una certa impressione vedere in televisione le immagini del Colosseo restaurato da Tod’s, con Matteo Renzi e il mecenate Diego Della Valle di nuovo felicemente insieme, dimentichi delle frecciate scambiatesi per un po’. E col ministro dei beni culturali Dario Franceschini in maniche di camicia a spiegare ai cronisti come un padrone di casa che cosa si potrà o dovrà fare in futuro nell’arena per usarne al meglio le risorse. Un Franceschini, magari, reduce o in procinto di andare a qualche altra riunione di corrente per aumentarne le munizioni nella partita che ha appena ingaggiato con Renzi allo scopo cristianamente dichiarato di aiutarlo a superare le difficoltà sopraggiunte col cattivo risultato delle elezioni amministrative, o le incognite del referendum sulla riforma costituzionale, ma pronto naturalmente anche a costruire nuovi scenari se non fosse possibile puntellare a sufficienza il segretario del partito e capo del governo.

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Nel Pd sta insomma accadendo, con qualche aggiornamento di stile e di uomini, esattamente ciò che si faceva nella Dc, dalla quale provengono d’altronde sia Renzi che Franceschini, pur avendo fatto appena in tempo, l’uno e l’altro, a conoscerla, vivendola più attraverso i genitori che direttamente. Ma ereditandone perfettamente le abitudini. E offrendo al loro partito d’origine, e ai loro leader scomparsi, da Alcide De Gasperi ad Attilio Piccioni, da Aldo Moro ad Amintore Fanfani, da Giulio Andreotti a Carlo Donat-Cattin, da Mariano Rumor ad Antonio Bisaglia e a Flaminio Piccoli, una specie di rivincita. E ciò a dispetto di ciò che forse i superstiti del Pci pensarono nove anni fa di avere realizzato unificandosi nel Pd con quel che era rimasto della Dc.

Lungi dal farsi fagocitare, sono stati gli eredi della Dc a fagocitare gli ex o post-comunisti, sia nell’area di maggioranza sia in quella di minoranza del Partito Democratico. La “ditta” di cui ha parlato romanticamente sino a qualche tempo fa il povero Pierluigi Bersani parlando appunto del Pd ma pensando al Pci e alle sue edizioni successive è bella che finita, chiusa. Non saranno certamente le sue battute, le sue immagini paradossali del tacchino sul tetto e della mucca nei corridoi, le sue imitazioni di Crozza, che ormai si confondono con quelle che Crozza fa di lui, a far tornare indietro l’orologio. Per ritrovarsi la “ditta” ho la sensazione che Bersani e i suoi compagni dovranno rassegnarsi ad allestirne un’altra, tutta loro, dando forse ragione a Massimo D’Alema, che ne critica e spesso deride il tipo d’opposizione o di resistenza sinora praticata contro quell’usurpatore o abusivo politico che egli considera Renzi. Ma che ha avuto, a sinistra, il coraggio mancato allo stesso D’Alema e compagni di iscrivere dalla mattina alla sera il Pd all’anagrafe del socialismo europeo: l’unica cosa che probabilmente avrà fatto rivoltare nelle tombe le ossa degli scomparsi leader dello scudo crociato.

Più che l’opposizione dei vari Bersani, Roberto Speranza, Gianni Cuperlo, o i “distinguo” dei vari Andrea Orlando, Matteo Orfini e Maurizio Martina, chiamati “i giovani turchi”, il presidente del Consiglio e segretario del Pd mostra sempre più chiaramente di temere le manovre di un Franceschini, i moniti di un Giuseppe Fioroni, o di un Franco Marini, o di un Romano Prodi, le iniziative e le parole di una Rosy Bindi, tutti di origine democristiana. E persino le interviste e i messaggi in bottiglia del suo predecessore a Palazzo Chigi e quasi esule a Parigi come insegnante di lusso: il pure lui democristiano Enrico Letta.

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Ah, la Dc. Quel partito di cera, come mi venne spontaneo definirlo in un libro della Editoriale Nuova, negli anni Settanta, per dare l’idea della capacità che aveva di prendere le forme delle situazioni e delle cose in cui si calava nei momenti di liquidità, e che Indro Montanelli volle correggermi in gomma, ritenendo che fosse ancora più importante la sua capacità di rimbalzare contro tutti gli ostacoli che incontrava, senza mai rimanervi schiacciata. E in effetti – debbo riconoscere – essa è rimbalzata, per quanto danneggiata dalla tempesta di Tangentopoli, e rassegnatasi a prendere altri nomi e altri simboli. Eppure i comunisti si erano illusi di averla distrutta, al pari degli altri partiti di governo della cosiddetta prima Repubblica, col solito aiuto dei magistrati.

Qualunque sia il destino personale di Renzi negli appuntamenti che lo attendono nella vita interna di partito e nel referendum sulla riforma costituzionale, e qualunque decisione dovesse prendere in caso di crisi il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, peraltro pure lui di origini democristiane, il presidente del Consiglio è già riuscito a dare al Pd il modello della Dc. Dove si trovava di tutto: destra, centro e sinistra.

Lo stile di Renzi potrebbe anche sembrare diverso da quello dei democristiani d’antan, ma solo a prima vista. Fanfani, in fondo, non era meno risoluto di lui. E di Fanfani forse egli è destinato ad ereditare, sorprendendo persino il rampante Beppe Grillo, anche il soprannome di “Rieccolo” affibbiatogli, più con simpatia che con acredine, da Montanelli, toscano come lui. E come lo stesso Renzi.

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