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Tutte le ambiguità di Erdogan in politica estera

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Si sono tenuti due giorni fa, alla presenza del Presidente Erdogan, dell’ex Presidente Gül e dell’ex premier Davutoğlu, i funerali dei cittadini turchi vittime del tentato golpe militare di venerdì notte. Quasi 300 morti che hanno ricevuto una postuma medaglia d’onore al merito nelle parole del Capo di Stato maggiore dell’esercito, Hulusi Akar, che ha parlato del “ruolo decisivo del popolo nello sventare il colpo di stato”. Tra le bare anche quella di Erol Olçak, spin-doctor delle vittoriose campagne elettorali dell’AKP, e suo figlio Abdullah.

Su Twitter è stato aperto un account, @StreetStreamTR, per “diffondere informazioni sul tentato colpo di stato da parte dei Gulenisti del 15 luglio 2016”. Una vera e propria Spoon River dei cittadini caduti nella battaglia. Nomi, foto e professioni di gente comune scesa in piazza con la bandiera turca per dire no al golpe, e che è rimasta vittima delle violenze a Istanbul, Ankara e İzmir, le tre città più colpite dalla rivolta.

Mentre da una parte si celebra l’eroica resistenza dei turchi, dall’altra il quotidiano filo-governativo Sabah ha pubblicato altri nomi e altri volti: quelli dei golpisti, capeggiati a quanto pare dall’ormai ex capo dell’aviazione Akin Oztürk e da altre figure di primo piano dell’esercito. Sabah ha dapprima pubblicato una loro foto in divisa e occhiali scuri e, poi, il giorno successivo, un’altra loro foto con le manette ai polsi e i volti tumefatti. Come in tutti i tentati golpe, l’iconografia, le immagini – vere, filtrate o presunte – hanno giocato un ruolo decisivo nell’outcome. E anche in questo caso il vincitore assoluto è stato il Sultano, Reçep Tayyip Erdoğan, capace di chiamare il suo popolo alla rivolta dai social che un tempo aveva bloccato per impedire ai manifestanti di Gezi Parkı nel 2013 di radunarsi e dialogare tra di loro, ma che ora gli sono serviti per allontanare lo spetto del colpo di stato.

Certo, la telefonata da Face Time è stata decisiva, ma anche la gestione post-golpe dopo l’atterraggio a Istanbul è stata esemplare. Dapprima Erdoğan è uscito a salutare i suoi fedelissimi alzando al cielo le quattro dita, con un gesto tipico della Fratellanza Musulmana, poi è apparso più presidenziale in conferenza stampa dietro a un enorme ritratto di Kemal Atatürk, il padre della Turchia repubblicana e secolare. I valori della laiklik che i suoi detrattori lo accusano di tradire e mortificare.

Il golpe ha dunque rilanciato l’immagine di Erdoğan come unico player nell’attuale panorama politico turco, e il fatto che i leader dei partiti dell’opposizione, da Devlet Bahçeli dei nazionalisti dell’MHP, a Kemal Kılıçdaroğlu, dei repubblicani kemalisti, abbiano sostenuto il governo democraticamente eletto dal popolo nei momenti concitati del tentato colpo di stato, è il segnale che qualora il Sultano verrà destituito sarà solo attraverso il voto popolare e non golpe militari che nel 2016 non appartengono più alla – seppur difficile – democrazia turca. Persino il presidente onorario del gruppo Doğan, Aydın Doğan, proprietario tra le altre cose del quotidiano Hurriyet, ha definito il tentato golpe come “un odioso crimine commesso ai danni della democrazia turca”. Dopo questa fase di popolarità, che da politico scaltrissimo il Presidente turco sta sfruttando a pieno, non mancheranno certo i problemi per lui e il governo guidato dal segretario dall’AKP, Binali Yıldırım. A cominciare dalla politica estera.

Le istituzioni turche hanno accusato apertamente il tycoon predicatore Fethullah Gülen, di essere la mente dietro i fatti di venerdì. A Istanbul una delle sue scuole di pensiero è stata data alle fiamme dai militanti dell’AKP, mentre in Somalia una delle sue fondazioni è stata chiusa e sono stati concessi 7 giorni di tempo ai dipendenti per lasciare il paese. Quello che più preoccupa è il rapporto con gli Usa, apertamente accusati di ospitare Gülen e le sue attività in Pennsylvania.

Uno dei tanti fronti aperti è quello con la Russia di Vladimir Putin: i due Presidenti si sono telefonati dopo le incomprensioni degli ultimi mesi ed è in programma un vertice a due nella prima settimana di agosto. Erdoğan sta cercando di ri-tessere una tela che ultimamente si era molto sfilacciata: dalla teoria della “profondità strategica” di Davutoğlu, divulgata come “zero problemi con i vicini” si è passati in breve a non avere alcun amico, né tra i vicini, né oltre il Medio Oriente.

Le ambiguità della politica estera turca non hanno certo giovato alla stabilità interna della Repubblica turca.

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