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Vi racconto cosa pensano davvero i 5 stelle dei lobbisti

Beppe Grillo e Luigi Di Maio

Michele Arnese e Bruno Guarini hanno giustamente definito una “svolta salutare” quella compiuta dal giovane vice presidente grillino della Camera, e ormai aspirante presidente del Consiglio, Luigi Di Maio confrontandosi con i lobbisti riuniti in un seminario organizzato dalla Fb&Associati, fondata da Fabio Bistoncini. Salutare, perché per buona parte di questa legislatura che ne ha segnato l’esordio i parlamentari pentastellati hanno scambiato i lobbisti per diavoli. E li hanno visti dappertutto: nelle anticamere delle commissioni, nei corridoi, nei gabinetti e chissà dov’altro ancora, finendo per scambiare per lobby – come ha fatto lo stesso Di Maio con una imperdonabile gaffe persino nel momento della sua “svolta”- addirittura “i malati di cancro”. Forse il giovanotto voleva riferirsi ai produttori dei costosi medicinali usati negli ospedali per curarli.

Evidentemente, man mano che, pur diminuendo di numero per espulsioni o defezioni, i parlamentari di Beppe Grillo sono cresciuti politicamente ed elettoralmente, specie ora che il loro partito ha conquistato la guida di città come Roma e Torino, sono stati avvicinati anch’essi dai lobbisti. E ne hanno cominciato a scoprire pure gli aspetti buoni, o più semplicemente utili, arrivando anche loro all’idea che il lobbismo va disciplinato, non criminalizzato.

Dubito tuttavia che Di Maio potrà riuscire a convertire davvero tutti i suoi colleghi di gruppo a questa svolta, almeno per come io mi sono abituato a vederli muoversi e parlare fra la Camera e il Senato, sempre con quel loro modo di diffidare di tutto e di tutti, e di sentirsi diversi, nel senso di migliori. Cosa che non ha portato fortuna ai comunisti di Enrico Berlinguer e successori, e non ne porterà neppure ai grillini.

Per darvi un’idea di come mi sono fatto questa convinzione vi racconto una modesta esperienza personale.

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Siamo ai giorni della campagna referendaria contro le trivelle, influenzata dal clamore per la vicenda giudiziaria di Tempa Rossa, in Basilicata. Il governo è accusato dai grillini di essere al soldo dei petrolieri, per favorire i quali avrebbe introdotto all’ultimo momento nella legge finanziaria approvata nei mesi precedenti un emendamento fatto apposta per sbloccare cantieri fermi da anni. Federica Guidi, per quanto non indagata, è stata costretta a dimettersi per avere informato il suo convivente, interessato alla vicenda, della decisione che andava maturando nel governo. Una decisione di cui peraltro Matteo Renzi si è assunta personalmente la responsabilità sfidando i magistrati di Potenza a coinvolgerlo nell’inchiesta: cosa che non avviene, probabilmente anche per il timore degli inquirenti di perderne la competenza a favore del tribunale dei ministri, dove si arriva al processo solo su autorizzazione del Senato, se l’uomo di governo indagato non è parlamentare, come nel caso dell’allora e attuale presidente del Consiglio.

Una sera assisto, sgomento, ad un duro scontro televisivo, nel salotto di Lilli Gruber a la 7, fra il deputato grillino Alfonso Bonafede, eletto in Toscana, e il piddino Matteo Colaninno. Il quale cerca di opporre la sua incredulità alla certezza dell’altro che il Parlamento e il governo siano nelle mani dei lobbisti, e non solo di quelli delle aziende petrolifere.

Invitato a fare esempi e nomi di lobbisti così efficacemente e scandalosamente operanti tra Montecitorio e Palazzo Madama, Bonafede indica non nomi ma due categorie, chiamiamole così, di infiltrati. Sono gli “ex parlamentari” e “i giornalisti parlamentari in pensione”.

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In veste di giornalista parlamentare dal lontano 1965 e di pensionato mi sento personalmente colpito ingiustamente da un’accusa così sommaria e mi propongo di cogliere la prima occasione utile per cantargliene quattro a quel signore. Non debbo aspettare molto. Dopo qualche giorno riconosco nel cosiddetto Transatlantico di Montecitorio quel deputato, inconfondibile con quei capelli corti e ispidi. E’ solo, con il suo auricolare infilato e lo smartphone in mano. Mi presento, gli consegno il mio biglietto da visita e gli contesto abbastanza garbatamente le cose dette sui presunti lobbisti.

Lui non mi fa neppure finire di parlare e di spiegargli le ragioni per le quali dissento dalle sue informazioni e opinioni per dirmi, con aria risentita, come se lo volessi o potessi intimidire: “Sia chiaro che tornerò a dire le stesse cose la prossima volta”.

Pazientemente gli spiego che lui, come chiunque altro, deputato o non deputato, è libero di dire quello che vuole ma dovrebbe anche avvertire il dovere di dire cose certe e documentabili, non di sparare tutto quello che gli viene in mente o ha sentito dire dagli altri. Gli spiego, ancora più in particolare, che con i tagli subiti dalla mia pensione cosiddetta d’oro, con contributi di solidarietà di oltre quattrocento euro mensili, e un’imposizione fiscale di oltre il cinquanta per cento, mi farebbe comodo una bella consulenza di lobbista, ma nessuno me l’ha offerta. E se qualcuno me l’offrisse, non l’accetterei perché non sarebbe il mio mestiere. Dovrei, fra l’altro, rinunciare a far parte all’associazione della stampa parlamentare, cui invece tengo per una vita professionale spesa in Parlamento e per quello che ancora mi piace di scrivere.

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Imperterrito, l’onorevole Bonafede torna a dirmi che “la prossima volta, sia chiaro, ripeterò le stesse cose”. E io, con pazienza, gli confermo di riconoscergli il diritto di dire quello che vuole, facendo però attenzione a non dire sciocchezze. E gli spiego che, a mio modestissimo e magari sbagliatissimo parere, le aziende che hanno bisogno di lobbisti difficilmente li cercherebbero fra gli ex parlamentari e i giornalisti in pensione. La cui capacità di illustrare le esigenze di quelle aziende e, soprattutto, di influire sui loro interlocutori sarebbe di gran lunga inferiore a quella di parlamentari in carica e di giornalisti in piena attività, non defilati come generalmente sono gli ex deputati o senatori e i pensionati.

Niente da fare. L’onorevole Bonafede continua ossessivamente ad affermare il diritto e l’intenzione di ripetere quello che ha detto. Lo segnalo all’onorevole Di Maio perché cerchi di smuoverlo da quella posizione e di farlo ragionare. Vedo, fra l’altro, che l’uomo è abbastanza disciplinato alle direttive o agli orientamenti del movimento o del gruppo. Apprendo dalle informazioni raccolte navigando in internet che Bonafede ha votato solo nello 0,55 per cento dei casi, fra aula e commissione di cui fa parte, diversamente dai suoi colleghi di partito.

Non so però se Di Maio troverà il tempo per parlare di lobbismo con il suo collega, preso come temo che sia in queste ore, come dirigente del partito, dal nuovo caso grillino scoppiato a Roma. Dove la senatrice pentastellata Paola Taverna, nota per non avere peli sulla lingua, è stata sentita dire al capogruppo leghista Gian Marco Centinaio nella buvette di Palazzo Madama che la sindaca Virginia Raggi, pentastellata pure lei naturalmente, “prima cade e meglio è”.

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