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La Scuola Cattolica di Albinati, il valore di un libro troppo lungo

Di Marco Zoppas

Sì è vero, avrebbe meritato qualche sforbiciata qua e là. A volte il testo risulta lezioso o eccessivamente ricercato. Stonano alcune citazioni in inglese e soprattutto le citazioni delle canzoni come quella dei Talking Heads, Once in a Lifetime.

Un esempio su tutti, quando a pag. 1130 Edoardo Albinati così descrive gli ultimi giorni del suo insegnante Cosmo: “Negli stessi giorni in cui Cosmo era morente, scompariva un grande innovatore tecnologico, forse il più grande e famoso, nel campo dei computer. Anche lui malato di cancro, parecchio più giovane di quanto io sia adesso, mentre scrivo questo, di tanto in tanto toccandomi coglioni. Il suo nome è ovvio e i suoi slogan troppo popolari perché io li ripeta qui”. Non avrebbe semplicemente potuto scrivere: “Negli stessi giorni in cui Cosmo era morente, scompariva Steve Jobs”, risparmiandosi le cinque successive righe del testo pubblicato?

Ma ognuno ha i suoi ritmi. L’autore ha evidentemente bisogno dei suoi tempi per carburare, e addentrarsi nell’argomento che più gli preme. La sua è una descrizione del collegio di soli maschi da lui frequentato in un quartiere centrale della Roma bene, i preti che vi ruotavano intorno e i suoi compagni di classe. La storia si svolge negli anni settanta. Colpisce l’urgenza, il senso di missione o di necessarietà che Albinati prova nel domandarsi perché in quell’epoca di passaggio e in quei luoghi si sia sprigionato tanto furore. Infatti molti dei suoi compagni di allora, per vie più o meno traverse, sono finiti in prigione o sono comunque finiti male. E fu proprio lì e in quelle circostanze che si verificarono i fatti delittuosi del Circeo, il macabro e non circoscritto episodio criminale che incombe sull’intera vicenda narrata nel libro.

Una delle domande più insistenti che Albinati si pone è se il suo quartiere non sia stato una specie di laboratorio per idee sovversive. Gli ingredienti c’erano tutti. Un luogo anonimo in una società che di lì a poco sarebbe diventata quasi irriconoscibile, passando da un’autorità parentale in declino al crescente dominio del consumismo e dell’erotismo a buon mercato che ora imperversano. Mezzo secolo compreso in una anno solo e in un solo quartiere fa scaturire una forma di fascismo vecchia e nuova allo stesso tempo, inneggiante alla morte, alla gratuità del sacrificio, che si esprime “nel non dover rendere ragione dei propri atti, atti sovrani, appunto, indiscutibili, redenti e decontaminati dalla lebbra del ragionamento”. I ragazzi con cui lui è cresciuto incarnano un fascismo volutamente irrazionalistico che si sottrae all’analisi, gli atti atroci si commettono per il gusto di metterli in pratica, quasi per indifferenza, senza cause e scopi apparenti.

Cos’era cambiato in Italia? Nel romanzo la svolta s’impone con l’affermarsi del femminismo. I rapporti all’interno delle famiglie e tra i sessi non possono più esser dati per scontati. I maschi della scuola cattolica si sentono spaesati e si vendicano a vanvera. A differenza del movimento dei lavoratori, nel caso dell’emancipazione femminile “le rappresaglie colpiscono i singoli individui, e possono farlo in ogni momento e luogo. A casa, per strada, di giorno, di notte, nei luoghi di lavoro e in quelli di divertimento. Non c’è fabbrica occupata da sgomberare o una piazza da caricare con la cavalleria. Il bersaglio della rappresaglia, e cioè una singola donna indifesa, lo si può trovare ovunque. In ogni casa e fuori”. Albinati la definisce una guerra mondiale a bassa intensità, dove “il sangue versato è troppo sparso sul territorio per individuare la linea di combattimento, anzi, il guaio è che i contendenti non sono quasi mai separati da un confine, da una trincea, da un muro, da un filo spinato. Dunque una battaglia decisiva non avrà mai luogo”.

Ma la novità del libro – quasi una nuova frontiera nella letteratura – sta nell’atteggiamento dell’autore che sembra ingaggiare un coraggioso duello a distanza con gli psicopatici (chiamiamoli così, in assenza di una definizione migliore) ancora impuniti o recidivi, protetti da un sistema di connivenza che lui cerca di scandagliare, a partire dalle famiglie, dalle esili giustificazioni di chi ci vuole tutti colpevoli e quindi tutti condonabili, fino alle associazioni di recupero che operano all’interno delle carceri. Come per dire (riecheggiando il Pasolini degli Scritti Corsari?): io so chi siete, non perché sono un poeta, ma perché ho fatto le vostre stesse scuole!

Vista la situazione attuale uno viene quasi tentato dal vederci una prefigurazione dell’ISIS, quando Albinati così descrive i suoi ex compagni di scuola (e mi scuso per la lunga citazione):

“Seguiamoli dalla cattiva condotta scolastica al sequestro e all’omicidio: graduazione progressiva ed estensione criminale del “combinare guai”. Sono ragazzi egotisti, impulsivi, bugiardi, tendono ad afferrare ciò che desiderano senza preoccuparsi se ne abbiano o meno diritto. Possono diventare violenti se ostacolati o anche se non incontrano ostacoli. Preoccupati poco dalle conseguenze dello loro azioni. La riprovazione o gli eventuali castighi non li spaventano prima e non li correggono dopo aver commesso delle malefatte. Invece che fungere da deterrente, la punizione sembra premiarli, o lasciarli indifferenti, tuttalpiù esacerbare il loro risentimento. Più che ostili per principio, essi appaiono del tutto insensibili al prossimo, stentano a riconoscergli un’identità precisa, così come idee, sentimenti o diritti, mentre le sue sofferenze, anche quando sono stati essi a provocarle, non li riguardano. Diversamente dai sadici veri e propri, non godono del dolore altrui per via diretta, ma lo osservano come un “effetto a distanza”, una ricaduta secondaria. Tendono ad agire impersonalmente e il male che commettono lo ritengono alla stregua di un evento naturale e inevitabile che non necessita spiegazioni. Se gli altri significano così poco per loro, perché mai dovrebbero provare rimorso per il male inflitto? Semmai un po’ di stupore e una punta di fastidio constatando come gli altri esagerano nel protestare, nel dolersi, nel pretendere un risarcimento. La sofferenza appare loro sempre scomposta strepitante ed eccessiva. La preoccupazione e il rimorso possono nascere solo dalla capacità di immedesimarsi, una facoltà immaginativa, proiettiva, che loro non possiedono. Si può supporre che al cinema facciano fatica a capire perché il pubblico abbia tanta paura o pianga o si appassioni per le storie che vede passare sullo schermo, e dunque si annoino a morte o semmai ridano alle spalle di tutto quello sciocco sentimentalismo. Hanno rimosso dal loro modo di ragionare il rapporto causa-effetto. Vivono con l’unico scopo di affermare se stessi. Del mondo hanno un’impressione di piena disponibilità: nulla è impossibile, nulla vietato. Per fare basta voler fare. Non sentendosi amati, non temono nemmeno che qualcuno ritiri o rifiuti loro il suo affetto in seguito al loro comportamento negativo. Alle spalle e davanti hanno il vuoto. La verità li lascia freddi, annoiati. Nutrono scarso interesse nell’essere onesti e hanno difficoltà a riconoscere quale differenza effettiva vi sia nel non esserlo. Ed è raro, rarissimo che si sentano colpevoli.”

Ma forse presumere un’intuizione sul l’ISIS, a cui nel romanzo non si accenna mai, lascia il tempo che trova. Meglio riprendere il discorso dell’Italia cattolica. In una delle sue tante digressioni Albinati diventa severo con i suoi colleghi scrittori italiani. Li rimprovera di adagiarsi sul luogo comune, e il loro unico contributo “è un surplus di veemenza formale, che non si sogna quasi mai di toccare la sostanza. E intanto la montagna di materia continua a crescere, a crescere…”. Tanto per ritornare alla critica iniziale si può dire che lo stesso Albinati indugia in aneddoti scarsamente rilevanti, come un suo incontro con un velista milanese con i weekend tutti impegnati oppure un pettegolezzo riguardante una storia d’amore tra un secondino e un carcerato transessuale, episodi che poco hanno a che fare con il resto della trama, a formare un pantano squisitamente italiano.

Il fascino del libro non risiede nelle digressioni. Per me per esempio, che sono cresciuto in una scuola cattolica della provincia veneta, è stato un’occasione di confronto continuo. A volte mi trovavo d’accordo con l’autore, a volte no. Ma poco importa. Non capita spesso di imbattersi in un romanzo che ti dà la sensazione di dialogare con chi lo ha scritto. Questa illusione è secondo me una delle ricette della sua grandezza. Fino all’ultimo Albinati sembra rimanere in bilico tra distacco e nostalgia per l’educazione ricevuta. Fa addirittura dire al suo mentore Cosmo che per un italiano non essere un cattolico significa andare contro natura: “il problema nel progetto di abbatterla è che, insieme alla fede cattolica, viene via tutto quanto il resto e della cultura italiana non resta in piedi nulla, non restano nemmeno i suoi pugnaci oppositori”. E verso la fine del romanzo affiora un pallido desiderio di conversione.

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