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Vi racconto la confusione delle idee di Matteo Salvini e Umberto Bossi

Dopo il rimprovero del Giornale della famiglia Berlusconi di avere dimenticato nei due giorni della Conferenza programmatica a Milano la discendenza politica dall’ex presidente del Consiglio, Stefano Parisi è stato ammonito da Matteo Salvini, sui prati di Pontida, a non farsi illusioni.

La Lega –ha gridato- “non sarà serva di qualcun altro, di Berlusconi o di Forza Italia”, e tanto meno di Parisi, per quante distanze egli potrà o vorrà prendere dall’ex Cavaliere di Arcore illudendosi di poter ripetere a livello nazionale l’esperienza irripetibile di Milano. Dove egli ha corso come candidato a sindaco con una coalizione comprensiva di partiti e di “gente” che ha collaborato o collabora con Matteo Renzi, e magari è anche schierata nel fronte referendario del sì alla sua riforma costituzionale.

Questo e non altro è il succo del messaggio di Salvini, cui “la sola parola centrodestra fa venire l’orticaria”. Su Renzi, poi, il segretario leghista non ha cambiato idea neppure vedendolo scontrarsi dopo il vertice europeo di Bratislava con l’odiata cancelliera tedesca Angela Merkel, e col presidente francese François Hollande, sulla gestione troppo rigoristica dell’Unione Europea.

Ma a Pontida si è consumato anche un altro strappo di Salvini da Umberto Bossi, che gli ha contestato l’italianità della Lega riproponendo l’indipendenza della Padania e la secessione. Come vent’anni d’anni fa, quando alla rottura della prima alleanza con Berlusconi l’allora leader del Carroccio fece seguire la proclamazione a Venezia della Repubblica “federale e sovrana” della Padania, di cui nominò un governo provvisorio insultando una signora che dalla finestra sventolava per protesta una bandiera tricolore, sino a intimarle di “buttarla nel cesso”. Allora egli diede dodici mesi di tempo all’Italia per negoziare un pacifico passaggio dei poteri nei territori del Nord.

Agli antichi sogni secessionistici di Bossi, sfociati nella emblematica espulsione dal movimento della troppo presidente italiana della Camera Irene Pivetti ma anche, dopo cinque anni, in una nuova e più duratura partecipazione al centrodestra berlusconiano, Salvini ha opposto il progetto “federalista” di “quel genio di Gianfranco Miglio”. Del quale però, con la sua costante polemica con la Merkel e con le troppo tardive, e secondo lui, poco credibili critiche di Renzi a Berlino, il segretario leghista ha dimenticato l’ammirazione che aveva per la Germania. Il professore contava orgogliosamente in tedesco, anche davanti agli ospiti, le galline che aveva nel giardino di casa.

Divisi sulla gestione della Lega e sulle stesse prospettive del movimento, Bossi e Salvini sono straordinariamente uniti nella confusione delle idee. D’altronde, le alleanze che Salvini rifiuta a livello nazionale sono le stesse che consentono alla Lega di governare in Lombardia, nel Veneto e in Liguria: nelle prime due regioni addirittura guidandole con i presidenti Roberto Maroni e Luca Zaia, che sono accorsi a Pontida senza essere certamente contestati.

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Nonostante questa confusione, Stefano Parisi ha voluto confermare il suo ottimismo, credo più per dovere d’ufficio che per convinzione, rifugiandosi nello slogan “uniti nella diversità” e assicurando che “con la scadenza elettorale” finiranno le polemiche. Anche quelle, evidentemente, interne a Forza Italia, dove il capogruppo alla Camera Renato Brunetta e gli altri ufficiali e sottufficiali di Berlusconi continuano ad usare contro di lui la carta vetrata, fra la tolleranza non casuale o la disattenzione di Berlusconi, che pure ha ormai controlli medici meno stringenti e dovrebbe avere ridotto, se non finito gli esercizi riabilitativi imposti dall’importante intervento subìto a cuore aperto.

Il mancato sindaco di Milano è d’altronde alle prese con una situazione politica assai fluida, di cui ha colto segnali tangibili anche fra gli amici e i simpatizzanti accorsi alla sua Conferenza, sentendone alcuni decisi a non seguirlo sulla strada del no referendario alla riforma costituzionale, o fortemente tentati dal sì. E che potrebbero esserlo ancora di più nei prossimi giorni, quando si accorgeranno che sono realistici e non strumentali, come sostengono gli avversari più incalliti del presidente del Consiglio, gli scenari descritti da Renzi dopo lo scontro a Bratislava con la Merkel e Hollande.

“Se vinco il referendum costituzionale – ha detto Renzi alla Stampa – al vertice europeo di Roma il 25 marzo”, in occasione del sessantesimo anniversario dei trattati comunitari firmati in Campidoglio, “io arrivo come il più forte di tutti, mentre loro saranno in piena fase elettorale”. Intanto la Merkel ha preso un altro schiaffo, appunto elettorale, a Berlino. E Hollande ha ben poche possibilità di essere confermato all’Eliseo.

Mi sembra difficile, in questa prospettiva, che all’interesse nazionale, costituito dall’allentamento dell’austerità teutonica e dalla divisione degli oneri dell’immigrazione fra tutti i paesi dell’Unione, possano resistere in tanti, nell’elettorato tradizionale di centrodestra, per preferire il più ristretto interesse di partito o di schieramento, specie poi di uno schieramento pieno più di tensioni e sospetti che di armonia.

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Gli umori del Paese sono in fondo migliori di quanto non sembrino leggendo le cronache politiche. Mi ha personalmente colpito tanta gente comune in fila davanti al Senato per raggiungere il feretro dell’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e onorarne la memoria prima dei funerali privati e della tumulazione nella sua Livorno. Un ex presidente fortemente convinto degli ideali europei, e perciò deluso dalla evoluzione poco solidaristica dell’Unione, ma che ha lasciato fra i segni più apprezzati del suo settennato al Quirinale la rivalutazione dei sentimenti patriottici.

Solo Salvini, non a caso, non si è lasciato scappare l’occasione per improvvisare un processo al morto, per via dell’euro, E solo Marco Travaglio, sul fronte opposto, pur rimpiangendone i no opposti dal Quirinale a Berlusconi, gli ha contestato come presidente del Consiglio nel 1993, con la formula tante volte derisa della inconsapevolezza – “probabilmente a sua insaputa” –  le concessioni che sarebbero state fatte dal governo nelle presunte trattative con la mafia, per uscire dalla stagione delle stragi, non rinnovando il carcere duro a trecento detenuti mafiosi.

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