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Vi racconto la Dc e la politica italiana ai tempi di Aldo Moro

Di Fernando Proetti
Moro

La sera prima del Congresso andavamo in via della Vite. Al numero 7, per l’esattezza, di un palazzotto un po’ fatiscente e senza ascensore che s’affaccia su quella strada, stretta e poco illuminata, che corre quasi parallela tra le più rinomate Frattina e Condotti. Era lì, nel cuore della Roma dei Palazzi della politica (espressione non ancora pienamente in voga) che teneva bottega politica Marcello Pagani. Piemontese, alto e dal fisico asciutto, la sigaretta perennemente accesa, da ragazzo il Professore – così lo chiamavano tutti -, era stato un promettente atleta. Se non ricordiamo male un buon quattrocentista. Una volta smessa la tuta e le scarpette chiodate, Marcello si era laureato all’Isef. L’università sportiva del Coni. Ma la sua vera vocazione non era l’insegnamento nelle palestre, ma la politica. A Torino Marcello aderì al gruppo di Forze Nuove guidato da Donat Cattin; poi, in seguito alla rottura con l’ex sindacalista traslocò dalla sinistra sociale nella Base di Marcora e De Mita. Pagani accompagnava nella nuova avventura politica, l’on. Guido Bodrato.

L’amicone dalle idee forti. Il miglior complice delle sue cene notturne nelle trattorie a prezzo fisso dalle parti del Pantheon. Anch’esse frequentate non per la bontà del menù offerto dall’oste, ma secondo l’appartenenza e il proprio credo correntizio. Si potrebbe scrivere addirittura una sorta di guida ragionata sui ristoranti di riferimento trafficati dalla gens democristiana del tempo (andato).

Il modesto ufficio in via della Vite occupato dal Professore, poca mobilia degli anni Cinquanta forse presa in prestito da qualche magazzino scolastico, era anche la sede de “Il Confronto”. L’agenzia vicina all’area Zaccagnini stampata dallo stesso tipografo di via Tomacelli che editava il quotidiano dei comunisti eretici de Il Manifesto. Consociativismo da rotativa. Sul terminare degli anni Settanta (di piombo) e l’avvio degli Ottanta (d’oro in quanto sembravano annunciare una nuova Belle Epoque) l’appuntamento pre-congressuale con il paziente Pagani, era l’ultimo approdo del lungo circumnavigare dei cronisti tra le impetuose correnti dc. Gruppi o fazioni (negli anni Sessanta il dibattito appassionò il giovane professore Giovanni Sartori e i suoi allievi de “il Mulino”) che, per dirla con le parole del costituzionalista Leopoldo Elia, “come fiumi carsici sparivano e ricomparivano”. Una frotta scomposta e rumorosa, la nostra. Comandata a presidiare palazzo Cenci-Bognetti in piazza del Gesù. La sede nobile della Dc con i suoi rituali immutabili: segreterie, direzioni, vertici, incontri. E con le sue indimenticabili passerelle: i leader che sfilano sotto il porticato invaso da una moltitudine di giornalisti, portaborse e questuanti.

Quest’ultimi abili nell’infilare biglietti di raccomandazione direttamente nelle tasche dei ministri o dei loro autisti. Vestiti rigorosamente in abito grigio ministeriale con la cravatta allentata sul collo. Uno spettacolo inimmaginabile ai giorni d’oggi. Per un breve periodo nell’edificio, costruito nel Cinquecento e ampliato nel 1737,coabitarono sia pure su piani diversi Amintore Fanfani e il cantante Domenico Modugno. Il che la dice lunga sull’atmosfera (surreale) che il luogo continua ad evocare.

La storia di piazza del Gesù così non ha nulla di comparabile alle vicende che si svolgevano nella vicina Botteghe Oscure. La casa madre del Pci. Luogo impenetrabile per i poveri giornalisti-cremnlinologi. Là dove si consumavano, con riti da Politbjuro sovietico, i comitati centrali della vecchia nomenklatura comunista. Loro sì, erano meno fortunati rispetto a noi, novelli Ahab a caccia della Balena bianca. La Dc dalle tante anime e umori era tanti partiti in un solo partito. Impossibile formare sul campo un pool informativo. Come accadde (malauguratamente) per i pistaioli del tribunale di Milano ai tempi di Mani pulite. Una combriccola a cui si era unita l’agguerrita pattuglia (in prima fila Ezio Mauro) de La Repubblica fondata da Eugenio Scalfari.

Così, ben prima dei cappuccini caldi consumati al secondo piano di palazzo Cenci-Bolognetti nel lungo regno di De Mita, diventammo fin troppo invadenti, scomodi e impertinenti. Anche per i colleghi più anziani. Con molte eccezioni tra i veterani della complessa materia. Ma, soprattutto, eravamo degli estranei, dei marziani agli occhi della declinante scuderia dei “cavalli di razza” dc (copyright Donat Cattin). E dei loro fidati portaborse. Nonché per i potenti collettori di tessere congressuali (e poltrone).

“L’ordine scorrevole dell’innovazione giornalistica ricomponeva la realtà italiana con mirabile compostezza”, scriverà trent’anni dopo il giornalista e scrittore Filippo Ceccarelli introducendo l’album dei ricordi politici de la Repubblica proprio a partire dal 1976. E la fotografia, spesso impietosa, dello zoo politico della prima Repubblica è proprio quella osservata al microscopio (e raccontata) dal massimo entmologo della prima Repubblica. Ecco il riassunto pungente, non senza una punta di sana nostalgia, che Ceccarelli fa su quell’indimenticabile stagione dei nostri tempi: “I partiti, le tribù, i dorotei misogini, la serietà di Berlinguer, la gobba di Andreotti, la pipa di Pertini e il dramma geopolitico italiano. Craxi arrivò in estate, ai bordi della piscina dell’hotel Midas. C’era sempre qualche riforma in caldo. A Roma alcuni democristiani dormivano ancora nei conventi, il Transatlantico di Montecitorio era al contempo hortus conclusus e gran cassa di risonanza…”.

Una nuova stagione ormai avanzava da tempo fuori e dentro le mura storiche di palazzo Cenci-Bolognetti dopo la lunga e controversa epopea dorotea. Con l’“occupazione del potere” pubblico (Elia, Cadenabbia 1965); le “veline” (stampate ancora con il ciclostile) e i “pastoni”, pagati in nero, confezionati a Montecitorio dagli artigiani della virgola politicamente non corretta. Tempi in cui nell’italietta agrodolce raccontata al cinema da Totò e Alberto Sordi, nel partito dei cattolici gli scandali boccacceschi (così venivano definiti dalla stampa di destra) facevano più paura delle tangenti (finanziamenti alle varie correnti dc). Memorabile e ilare fu quella notte che mentre i cronisti presidiavano palazzo Cardelli per seguire una riunione dei dorotei, uscendo dal sottoscala Mariano Rumor l’invitò, bonario e beffardo, ad andare a dormire: “Tanto lo leggerete domani sui giornali cosa è accaduto”. Davvero roba d’altri tempi.

La sera, dunque, andavamo in via della Vite per verificare l’esito “numerico” delle assise che di là a poco andavano a cominciare al Palaeur. Il finale (politico) era noto. Ma prima che i delegati entrassero sotto le volte in cemento armato del catino dell’Eur c’era da ricomporre la nuova geografia interna della Dc. E gli effetti che la nuova mappatura avrebbe prodotto sull’intero sistema di potere italiano. Pagani con gli occhi segnati dalla fatica estraeva dal cassetto un blocco di fogli con i “valori” (deleghe congressuali) reali. Tutti segnati a penna. Ben allineati in colonnine con la percentuale registrata a fianco. Una per ciascuna delle diverse correnti dc: tot a Forlani, tot a De Mita, tot a Colombo, tot ad Andreotti, tot a Donat Cattin… Percentuali con tanto di virgole decimali.

Numeri che il più delle volte non coincidevano con quelle magari vantate poche ore prima da Vito Napoli, sherpa di Forze Nuove, nella sede de “il Dibattito” in via della Colonna Antonina. Né con quelle roboanti dei dorotei mostrate in gran segreto dall’avv. Cascetta, l’uomo di fiducia di Antonio Gava, nella discreta hall dell’hotel Plaza. Ma del Professore ci si poteva fidare. Maneggiava il manuale Cencelli con perizia e onestà. Già, il prontuario della lottizzazione dc elaborato dal segretario di Adolfo Sarti, Massimiliano, nel 1968. Alla stregua di un abile operatore di Borsa, il listino delle azioni dc era aggiornato dal Professore con certosina puntualità. Giorno dopo giorno, ora dopo ora. Fino al last minute. A causa di adesioni e scissioni; variazioni provinciali e regionali; Opa ostili (tradimenti in corso d’opera) e default improvvisi per effetto delle “anime morte” (cancellazione a tavolino delle tessere fasulle). Altro che superamento delle correnti come andavano predicando da anni tutti i leader. “Il Cencelli? Uno dei libri da dimenticare, purché lo dimentichino tutti”, osservò una volta ironico Giulio Andreotti. Una volta compilata quella che per noi era la schedina vincente, con in premio il nome e il potere assicurato al futuro segretario, le sorprese e i colpi di scena – per un gioco assurdo tutto interno alle immutabili logiche democristiane –, avrebbero continuato a scandire comunque le giornate congressuali. La kermesse poteva andare ad iniziare.

Ecco allora il Palazzo dello Sport trasformarsi, secondo le regole del teatro epico, in una sorta di contenitore universale. Con dentro tutti i suoi protagonisti. I leader, i ministri, gli autisti, le scorte, le mogli e le figlie dei notabili, le segretarie, i portaborse, i portavoce, le migliaia di delegati, le truppe mastellate, le delegazioni dei partiti, le multicolori rappresentanze estere, la carovana dei giornalisti e operatori tv (che potevano muoversi nella più assoluta libertà), i telefonisti, gli addetti al palco e alle pulizie, gli imbucati. E poi gli ospiti illustri con il loro badge con foto polaroid sfuocata appeso al risvolto della giacca. Il mitico lasciapassare da alcuni boiardi di Stato ostentato come una medaglia; da altri messo alla rovescia nel tentativo patetico di rendersi anonimi ai lampi dei fotografi. E alla massa congressuale, come nei drammi brechtiani, piace che – comunque – succeda qualcosa. Tutti insieme rumorosamente, ma da protagonisti. Del resto, come ha osservato il critico Alfred Polgar, gli attori (e aggiungiamo i politici) “si distinguono dalle altre piante perché è quando non trovano posto nella pagine dei giornali che si seccano”. Alle assise dc anche l’ultimo dei peones una volta messo piede nel teatrino congressuale si trasformava, nonostante la parte scadente, in “un ciarlatano che compie magie vere”. Il pezzo di colore per il grande inviato era sempre assicurato. “Quando Shakespeare traversava il palcoscenico, per qualsiasi pubblico il rumore delle armi copriva i pensieri”, annotava lo scrittore austriaco Karl Kraus. Già, anche la politica è effetto di scena. E il Gran Teatro democristiano ne è stata la massima espressione.

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