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Che cosa non perdono al sommo giullare Dario Fo

Dario Fo

Non so, francamente, se sia stato davvero “sommo”, come lo stanno celebrando in tanti commentandone la morte e facendosi forti anche del Premio Nobel per la letteratura conferitogli nel 1997. Bravo lo era di sicuro. Fu tanto colto quanto divertente. “Il giullare dei nostri tempi”, si è detto di lui prima ancora che ci lasciasse.

Ma è proprio per la sua indiscussa, enorme cultura, e la grande capacità espressiva del suo fisico, oltre o prima ancora delle sue parole, che non riesco personalmente a perdonargli di essere stato il giullare non tanto dei nostri tempi quanto di quella che proprio oggi, con fatti documentati e non con invenzioni, ho definito e raccontato su Formiche.net come la Repubblica giudiziaria. Che è qualcosa di più grave della “società giudiziaria” recentemente lamentata dall’ex presidente della Camera Luciano Violante.

Anche le istituzioni, e non solo l’opinione pubblica, si sono lasciate schiacciare come sogliole da un invasivo potere giudiziario. Un “potere” peraltro che un intenditore come l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, per dettato costituzionale anche presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, contestò già nella parola citando l’articolo 104 della Costituzione. Che definisce quello delle toghe, letteralmente, “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Gli “altri” quindi, secondo Cossiga, sono i poteri: quello legislativo del Parlamento ed esecutivo del Governo. Anche noi giornalisti ci vantiamo a torto di essere o rappresentare un “potere”: quello, assai malandato in verità, della stampa.

Di questa Repubblica giudiziaria purtroppo Dario Fo fu il cantore: non una battuta critica o polemica verso la magistratura, se non quando le capitava di assolvere qualcuno. Eppure ce n’erano di toghe da sfottere come solo lui sapeva fare quando prendeva di mira qualcuno.

Scusatemi se non riesco a dimenticarla, ma trovai terribile quell’adesione di Dario Fo al manifesto dei 750 intellettuali e rotti sottoscritto nel 1971 per contestare un magistrato – Gerardo D’Ambrosio – che aveva osato scagionare il commissario di Polizia Luigi Calabresi dai sospetti e dalle accuse di avere buttato o lasciato buttare dalla finestra del suo ufficio nella Questura di Milano l’anarchico Giuseppe Pinelli. Che vi era trattenuto per interrogatori dopo la strage del 1969 nella sede milanese dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura.

Eppure Gerardo D’Ambrosio non poteva essere considerato certamente un fascista, come pure qualcuno ebbe la sfrontatezza di dire in quei tempi. Egli sarebbe poi diventato il vice di Francesco Saverio Borrelli alla guida della Procura di Milano negli anni di Tangentopoli, o Mani pulite, come furono chiamate le indagini sul finanziamento illegale della politica. Sarebbe stato fra i pochi pubblici ministeri distintisi nel cercare prove anche a favore, e non solo contro gli inquisiti, quando ebbe fra le mani l’inchiesta su Primo Greganti, quello del conto “La Gabbietta”, e sulle tangenti rosse. E sarebbe infine diventato senatore della sinistra.

Niente da fare. Col povero Calabresi un magistrato serio, secondo Fo e gli oltre suoi 750 amici di scrittura, poteva e doveva solo rovesciare il pollice in giù. E non avendolo fatto lui, vi provvidero i terroristi – come chiamarli sennò? – uccidendo il commissario l’anno dopo quel manifesto, pubblicato per tre numeri successivi dall’Espresso. Che è lo stesso settimanale di cui sono stati appena rinviati a giudizio i giornalisti “d’inchiesta” che hanno attribuito al governatore della Sicilia Rosario Crocetta una telefonata in cui lasciava augurare alla sua assessora alla Sanità Lucia Borsellino la stessa fine del padre Paolo, fatto saltare in aria con la scorta dalla mafia poco più di un mese dopo l’altro terribile attentato mafioso al magistrato Giovanni Falcone. Di quella telefonata e relativo nastro non è stata trovata traccia in un nessun ufficio giudiziario, a meno che qualcuno non se lo sia mangiato in un intervallo di lavoro di chissà quale Procura.

Il povero Dario Fo, pur con tutte le attenuanti dovute alla sua età – 90 anni – e salute, non ha fatto in tempo a deplorare neppure questa vicenda con qualcuna delle sue battute. Egli è stato generoso in vecchiaia solo con Beppe Grillo, di cui era un sostenitore entusiasta e collaboratore competitivo nell’opera di demolizione del nostro odiato, e naturalmente putrido, sistema.

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