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Cosa va (e cosa non va) nella Legge di bilancio di Renzi e Padoan

Per cogliere le luci e le ombre della manovra di bilancio, che il Parlamento si appresta ad esaminare, è indispensabile fare un passo indietro. L’Italia, infatti, a differenza degli altri Paesi europei non è mai uscita dalla crisi del 2008, dovuta al fallimento della Lehman Brothers. E rischia di rimanervi ancora impigliata nel 2017, qualora non si correggessero le tendenze del ciclo economico. Dopo la presunta crescita del 2016, che il governo stima allo 0,8 per cento, si tornerebbe nuovamente indietro con un’asticella inchiodata allo 0,6 per cento. Encefalogramma piatto.

Le ragioni di questa anomalia sono evidenti nei tracciati che mettono a confronto gli andamenti dell’economia italiana con quelli della Ue. Nel 2009 l’Italia, al pari degli altri Paesi europei, subì le conseguenze di uno shock simmetrico. Determinato cioè da una crisi che veniva da lontano: il moral hazard della finanza americana. Il crollo del Pil fu per l’Eurozona pari al 4,5 per cento. In Italia del 5,5 per cento.

Negli anni successivi l’economia europea si riprese con una certa rapidità. L’Italia seguì a ruota, ma con un leggero distacco. Il dramma furono gli anni successivi. Mentre nel 2012 e nel 2013 gli altri Paesi perdevano potenza con una caduta cumulata dell’1,2 per cento. In Italia si assisteva ad un nuovo crollo. Il Pil scendeva di altri 4,5 punti. Un nuovo shock. Ma questa volta asimmetrico: prodotto cioè dalle politiche seguite dai governi Monti e Letta. L’austerity imposta da quelle politiche allontanò definitivamente l’Italia dal contesto continentale. E da allora non si è più ripresa. Si può discutere se quelle politiche furono dovute o volute. Sullo sfondo era la crescita degli spread, ma anche l’esistenza di un governo tecnico che non aveva la forza di reggere il confronto europeo. Con il senno di poi si potrebbe dire che, dopo la crisi del 2011, forse era meglio andare subito ad elezioni anticipate: piuttosto che scegliere la strada di una lunga agonia.

Se si tiene conto di questo contesto, le opposizioni sbagliano quando si fanno folgorare da suggestioni rigoristiche. Per uscire dalla crisi sono indispensabili politiche espansive. Il giudizio va quindi rivolto alla loro qualità. Se le scelte del governo cioè sono in grado di determinare quella svolta strutturale di cui il Paese ha bisogno. Nel 2012 e nel 2013 la domanda interna (consumi più investimenti) è crollata dell’8,6 punti di Pil. Ci siamo salvati – si fa per dire – solo perché l’estero ha dato un contributo positivo di 3,9 punti. Una spinta che oggi non si vede più all’orizzonte a causa del ristagno del commercio internazionale dovuto alla crisi, seppure latente, del processo di globalizzazione.

Nel mutato contesto internazionale occorre quindi puntare su una ripresa della domanda interna. Ma come? Bisogna incentivare più i consumi delle famiglie o gli investimenti pubblici e privati? Che gli investimenti siano la variabile strategica è ormai un dato acquisito sia a livello nazionale (Banca d’Italia) sia a livello internazionale (BCE, OCSE, FMI). La manovra del Governo risponde a questo imperativo? Solo in parte. Matteo Renzi, nella sua conferenza stampa, ha sintetizzato il tutto nella formula “meriti e bisogni”. Una sintesi che evoca tempi passati: la conferenza di Rimini e la bella relazione di Claudio Martelli. Difficile non essere d’accordo. Più o meno trent’anni fa fu la bestia nera dell’allora Partito comunista: le radici storici dell’organizzazione di cui oggi lo stesso Renzi è segretario.

La scansione originaria di quella proposta era, tuttavia, diversa. Voleva significare: dobbiamo crescere per affrontare le nuove e le vecchie povertà. Renzi, invece, altera l’ordine dei fattori e quindi rischia di distribuire risorse che al momento non si vedono e che, difficilmente, potranno essere ottenute. Naturalmente non tutto è negativo. Le clausole di salvaguardia – quei 15 miliardi di previsto aumento dell’Iva e delle accise – andavano neutralizzate. Vedremo, leggendo i testi, se si riferiscono solo al 2017 o si eliminano completamente. Anche sugli incentivi previsti nel quadro “Industria 4.0” non si può non concordare. Ma solo in linea di principio. Saranno misure efficaci? O rischiano di coinvolgere solo una parte minoritaria del sistema industriale? Quel 25 per cento circa che esporta. Mentre il grosso resta schiacciato dal ristagno della domanda interna. E se questa non cresce in modo adeguato, è inutile ridurre le imposte su utili che non ci sono.

Il nodo vero della crisi italiana è dato dalla carenza di investimenti. Soprattutto quelli pubblici: che nel 2017 saranno ancora inferiori di 10,5 miliardi al tetto del 2011. Vedremo dalle tabelle allegate alla “legge finanziaria” di quanto potranno aumentare. Ma la base di partenza è comunque estremamente bassa. E senza questo volano, la congiuntura è destinata a ristagnare. I consumi privati sono, infatti, depressi dal perverso andamento dell'”effetto ricchezza”. La somma di fattori diversi: il rendimento del risparmio coi suoi valori negativi e la crisi del settore immobiliare, che ancora non si è ripreso. Se il patrimonio delle famiglie si riduce, la spinta ad accumulare risparmio per compensare le perdite diventa inevitabile. Se a questo si aggiunge la deflazione, che spinge a ritardare gli acquisti, e la disoccupazione che sottrae reddito, si può comprendere che puntare su questa variabile sia solo un miraggio.

Questi i limiti veri della manovra. Si utilizzano risorse incerte per disperderle in molti rivoli, nella speranza di allargare la base del consenso. Un solo esempio. Per la quattordicesima ai pensionati non è prevista l’Isee, che invece vale per il diritto allo studio. Si rischia pertanto di dare una manciata di euro alle famiglie con doppie entrate da parte dei due coniugi. Ma per i giovani si invoca il massimo del rigore. Un controsenso evidente, nella prospettiva di far uscire l’economia italiana dal lungo pantano. Se questo fosse l’obiettivo reale. Se invece si guarda al 4 dicembre, allora lo scenario è completamente diverso.

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