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Rosy Bindi e Vincenzo De Luca, cosa divide e cosa lega la coppia da sballo politico

Vincenzo De Luca
Tanto è evidente la incontinenza verbale del governatore della Campania Vincenzo De Luca, aggravatasi secondo me con la pubblicità che ne fa Maurizio Crozza imitandolo, quanto è palese la tigna politica, che a Roma chiamano cocciutaggine, sempre in ambito politico, della presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi.
Il fatto poi, del tutto casuale evidentemente, che i due appartengano allo stesso partito, il Pd, il cui segretario è anche presidente del Consiglio, complica moltissimo le cose. E fa di De Luca e della Bindi una coppia davvero curiosa, quasi da sballo, sempre politico, per carità. Di altro mi guarderei bene dal parlare per ragioni, non foss’altro, di buon gusto.
Si sa bene, ormai, e purtroppo, che cosa pensi De Luca della Bindi dopo avergli fatto rischiare di perdere le elezioni regionali dell’anno scorso includendolo in una lista di impresentabili, a giudizio della commissione che presiede: una donna “da uccidere”, sia pure nel senso metaforico, come i “va’ a morì ammazzato” che ti senti gridare a Roma al primo torto che qualcuno ritiene di avere subìto da te. Ma ora si sa altrettanto bene, purtroppo, che cosa la Bindi pensi di De Luca: un uomo politico da tenere bene sotto controllo, da non perdere di vista, cui non fare alcuno sconto quando gli capita – e purtroppo gli capita crozzianamente – di parlare troppo a ruota libera. Come ha fatto anche nei giorni scorsi in un’assemblea di ben trecento sindaci della sua regione, richiamati non dico all’ordine ma quanto meno all’utilità politica del sì referendario del 4 dicembre alla riforma costituzionale. E ciò per i vantaggi che le amministrazioni comunali potrebbero ricavare da una stabilizzazione del quadro politico, per effetto appunto della vittoria del sì, e dalla conseguente erogazione dei finanziamenti già programmati di opere pubbliche e simili.
Se non alla Bindi in persona, o da sola, all’ufficio di presidenza della sua commissione parlamentare, dove si è realizzata una convergenza fra tutti gli  esponenti dell’area referendaria del no e il Pd è rappresentato proprio da lei, la presidente, è venuto il sospetto che De Luca e i sindaci che ne hanno condiviso e condividono tesi e comportamenti possano essere indagati dalla magistratura ordinaria per reati che vanno dal cosiddetto voto di scambio a chissà altro.
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E’ così accaduto che, confortata dall’unanimità dell’ufficio di presidenza, tradotto generosamente sul piano mediatico in unanimità della commissione, la Bindi ha chiesto alla magistratura campana di mandarle gli atti riguardanti questo nuovo caso De Luca per valutare se non vi siano anche aspetti di mafia, di competenza appunto della sua commissione. Che in tal caso intende svolgere indagini e assumere altre iniziative, a questo punto parallele a quelle delle Procure distrettualmente competenti.
Questa iniziativa si presta obiettivamente a qualche osservazione. Innanzitutto si può pensare che, se mai le Procure non avessero già provveduto ad aprire indagini, l’iniziativa della presidenza della Commissione parlamentare potrebbe funzionare da stimolo in questa direzione. Se poi le avessero già aperte di loro doverosa iniziativa, vista la famosa e cosiddetta obbligatorietà dell’azione penale, l’iniziativa della presidenza della Commissione antimafia potrebbe aumentarne l’eco mediatica.
Ma tutto questo, a poco più di una settimana ormai dal referendum sulla riforma costituzionale, non rischia di trasformarsi, anche al di là delle intenzioni della presidente della Commissione, in nuove e maggiori tensioni politiche? Magari, al governatore della Campania sarà già venuto il sospetto che si stia consumando, se non si sia già consumato, un tentativo di aiutare con l’uso improprio delle istituzioni, delle quali sicuramente una Commissione parlamentare si può ben considerare parte, un soccorso alla propaganda del no referendario. Ma se questo sospetto gli è già venuto in mente, consiglierei a De Luca di tenerselo per sé per non complicare le cose e incorrere in altre polemiche, o in un altro caso. Al massimo,  se lo lasci magari attribuire alla prima occasione utile, prima del 4 dicembre, dal suo imitatore Crozza, che come comico e, più in generale, uomo simpaticissimo di spettacolo, rischia di meno. E fa rischiare di meno anche a lui, visto che proprio di recente è venuto da personalità di vertice delle istituzioni a De Luca l’ironico invito a smetterla di parlare come Crozza, in una paradossale gara quindi di imitazioni che potrebbe alleggerirne le responsabilità.
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Certo, di interferenze e diversivi questa benedetta campagna referendaria ne ha subìte tante, in ogni direzione politica. Come stanno lamentando anche, a torto o a ragione, Beppe Grillo e amici. Ai quali non fa comodo la coincidenza, per esempio, fra i loro assalti verbali alla riforma costituzionale di Renzi e gli sviluppi delle indagini giudiziarie, fra Palermo e Bologna, sulla raccolta irregolare, a dir poco, delle firme per la presentazione delle loro liste elettorali, al pari, d’altronde, di quanto è accaduto anche ad altri partiti. Ai quali adesso non par vero vedere anche i pentastellati nei guai.
Ciò che invece non si può scambiare per interferenza è il monito attribuito al capo dello Stato dopo un incontro avuto con Renzi per valutare la situazione politica. Il monito è esattamente questo, come lanciato, fra gli altri, da un titolo del Messaggero, giornale di Roma casualmente a due passi dal Quirinale: “Il referendum non modifica la maggioranza”.
Anche a costo di scandalizzare i soliti padroni o padrini della Costituzione, professori e professoroni che la sanno sempre più lunga di noi modesti e pasticcioni giornalisti, in quel monito ho trovato e trovo motivi per pensare che non sarebbe uno scandalo se in caso di sconfitta referendaria e di dimissioni di Renzi, il presidente della Repubblica si limitasse a rinviarlo alle Camere per verificare appunto la sua maggioranza parlamentare, anche se risultasse diversa da quella uscita dalle urne. E già liquidata dallo stesso presidente del Consiglio come “un’accozzaglia”, pur al netto delle scuse che poi egli ha ritenuto di dover chiedere, e che secondo me non erano per niente dovute, data la natura non proprio omogenea, per contenuti e per obiettivi politici, dei tanti no alla riforma.
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