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Perché in Israele Donald Trump piace più di Obama

Il Medio Oriente è da secoli l’area più complicata dell’orbe terracqueo. Da decine e decine di anni è anche quella più insanguinata. Da più di cinque è teatro di una guerra che sono in realtà almeno sette. E per teatro delle iniziative diplomatiche più numerose e più contrastanti per cercare di risolvere o almeno raffreddare alcuni o tutti i focolai bellici e di terrore. A complicare ulteriormente l’equazione mediorientale è arrivato adesso Donald Trump. Non dalla Casa Bianca, dove continua ad abitare e a gestire il potere Barack Obama, fino al 20 gennaio. Ma come vincitore delle elezioni presidenziali e dunque futuro leader dell’America e del mondo, che ancora deve riprendersi dalla sorpresa e dallo choc della sua vittoria, che pochissimi prevedevano e pochi auspicavano, in tutte le fette di mondo, a cominciare dai protagonisti della inestinguibile guerra in quella regione.

Di Obama si sapeva pressappoco che cosa cercava e auspicava, anche se spesso con esitazioni, contraddizioni e astensioni teoricamente provvisorie. Di Trump non si sa praticamente nulla e quel che traspare delle sue intenzioni o almeno preferenze è troppo spesso contraddittorio. Lo si vede meglio, paragonandolo, punto su punto, al suo predecessore. In netta minoranza nel voto degli americani ebrei, egli è popolare in Israele, a cominciare dal primo ministro Netanyahu che negli ultimi otto anni non ha fatto che incrociare il ferro con Obama e che ha dato una spintarella a Trump durante la campagna elettorale. Egli si aspetta un appoggio e probabilmente lo avrà, almeno se riuscirà per l’ennesima volta a respingere l’offensiva dell’opposizione interna che sembra avere un nuovo leader in Yair Lapid, un “centrista” molto polemico che, per hobby, scrive romanzi gialli. L’amore di Trump per Israele si sintetizza nella sua apparente intenzione di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico mettendo fine al ruolo provvisorio di Tel Aviv: un modo simbolico per seppellire definitivamente il progetto dei due Stati in Palestina, promesso da decenni alla minoranza etnica.

L’uomo che sta per entrare nella Casa Bianca ha martellato inoltre con insistenza la necessità di una guerra globale e coerente contro i terroristi dell’Isis e quelli affiliati ad Al Qaida. Però egli ha prodotto, più o meno, allo stesso tempo, una serie di dichiarazioni fortemente ostili all’Iran, culminanti nel progetto di “cancellare” il trattato faticosamente concluso da Obama con il regime di Teheran, che rinuncia, per diversi anni, alla costruzione di armi nucleari. Trattato duramente criticato da Israele e appoggiato invece dalla maggioranza degli ebrei americani e degli americani in genere, che prendono atto del fatto che il governo mediorientale più deciso nella lotta contro i terroristi sunniti è proprio l’Iran. Trump sembra avere ereditato, almeno in questo, le scelte di Obama.

Se alle parole seguiranno i fatti, la guerra quinquennale in Siria, che oggi sembra volgere contro l’Isis, potrebbe invece rimanere “bloccata” a tempo indeterminato. Questa contraddizione, inoltre, verrebbe a rafforzare la contraddittorietà con lo sviluppo politico-militare più importante oggi nel pianeta, fra l’America e la Russia, che ha riportato in parte un’atmosfera da Guerra Fredda. A differenza di Obama, Trump ha esordito con uno scambio di calorose parole con Vladimir Putin, che potrebbero preannunciare una “ricucitura” almeno parziale che tenga conto non solo della Siria, problema più urgente, ma anche dei postumi della crisi fra Russia e Ucraina e dei timori di alcuni esponenti di Washington riguardo i Paesi baltici, che sono membri della Nato. Il punto focale pare essere la Lettonia, dove gli Usa e alcuni Paesi europei fra cui l’Italia stanno inviando rinforzi. Negli altri due paesi la tensione ha prodotto cambi di governo: la Lituania assume una linea più esplicitamente antirussa mentre in Estonia è salito al potere il partito votato a forte maggioranza dalla minoranza etnica di lingua russa.

Il debutto di Trump sembra dunque dover avvenire in forte misura nel terreno della politica estera, in cui l’establishment americano è apparso negli ultimi anni fortemente diviso, con una spaccatura che investe entrambi i partiti e l’establishment in genere. I falchi hanno appoggiato compatti Hillary Clinton, fautrice di una continuità antagonistica nei confronti del Cremlino. La sconfitta del candidato democratico ha aperto la strada a mutamenti di rotta e soprattutto alle incognite sulle decisioni che prenderà Donald Trump, un uomo finora con assai più fantasia che esperienza.

(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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