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Perché celebro Haydée Santamaria e non Fidel Castro

Ho pensato tanto se scrivere qualcosa a proposito della morte di Fidel Castro, che per molti della mia generazione è stato comunque un mito. Lo è stato anche per me, da ragazzo. Certo un mito minore rispetto al Che. Ma pensateci, per un preadolescente del 1967 leggere del Che in Bolivia e sapere che pochi anni prima un gruppo di studenti, armi in pugno, era riuscito a cacciare una delle peggiori e corrotte dittature del mondo, non poteva che scatenare un innamoramento a prima vista.

Avevo 11 anni, leggevo Salgari in maniera compulsiva e mi avevano regalato G/Joe, l’antenato di Big Gim, in versione Marines. Ma io gli avevo levato le insegne militari americane e con il pongo gli avevo fatto la barba, per farlo assomigliare a quei guerriglieri le cui foto arrivavano a casa attraverso alcuni settimanali, tra cui l’Europeo, dove tanti anni dopo avrei lavorato.
Cuba per me era Mompracem e il Che e Fidel erano Sandokan e Yanez (strano per un rampollo di una solida famiglia fascista), amore puro, cementato poi negli anni della militanza politica. Ma un amore finito male (quello per Fidel, non per Cuba), il 26 luglio del 1980, quando Haydée Santamaria morì suicida, sparandosi un colpo di pistola. La lettera con cui si dissociò dalla rivoluzione non è mai stata resa pubblica.

Haydée non era una dirigente qualunque, ma una delle due donne che furono fin dall’inizio al vertice dell’organizzazione rivoluzionaria. Il 26 luglio del 1953 partecipò, infatti, insieme a Melba Hernandez, all’assalto della caserma Moncada, erano le infermiere del gruppo e non scappò, ma rimase fino alla fine di quel fallito tentativo rivoluzionario che diede l’avvio al tutto. Quindi fu catturata e torturata e per farla parlare gli sgherri di Fulgencio Batista le misero davanti i testicoli del suo fidanzato e gli occhi di suo fratello, Abel Santamaria, che divideva con Fidel il comando del movimento rivoluzionario.

Questo per dire contro quale regime i barbudos combattevano (e così possiamo considerare chiusa la questione se era giusto o no fare quella rivoluzione, contro un governo al soldo della mafia americana ed eterodiretto dalla Cia).
Haydée non parlò, e ai suoi aguzzini disse, riferendosi alle atroci reliquie di fidanzato e fratello: “Se essi sono stati capaci di morire, lo sarò anch’io”. Non morì, sopravvisse fino alla vittoria della rivoluzione e fu poi dirigente ed intellettuale di punta del nuovo stato, direttrice della Casa de las Americas, una delle principali istituzioni culturali cubane, sposò un altro mito della rivoluzione, Armando Hart. Ma alla fine si sparò quel colpo di pistola, stremata dall’evidenza del fallimento della sua rivoluzione che in quell’anno di grazia, 1980, aveva portato 125 mila cubani a scappare con ogni mezzo galleggiante dal porto di Mariel verso Miami, e tutto ciò mentre da anni languiva in carcere un poeta come Heberto Padilla, che al pari di Federico Garcia Lorca, aveva solo la grave colpa di scrivere liriche che spiacevano al regime.

Ecco, quel 26 luglio (ma per la stampa cubana e il regime la data fu spostata al 28, per non farla coincidere con l’anniversario dell’assalto alla Moncada) Fidel per me divenne solo un caudillo, uno dei tanti della storia latinoamericana. Oggi, se proprio devo celebrare qualcuno, brindo ad Haidée, donna coraggiosa. Eroina del Novecento che avrebbe meritato ben altra fine

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