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Tutti i siluri sottotraccia fra Matteo Renzi e Romano Prodi

La disponibilità appena annunciata da Matteo Renzi al Corriere della Sera a “garantire la stabilità, non l’immobilismo” è un messaggio in bottiglia, diciamo così, a chi punta ancora ad una sua sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale per liberarsi finalmente di lui, cogliendo l’occasione delle sue attese dimissioni, e chiedere al capo dello Stato di far fare a un benemerito volontario il solito governo di decantazione, dopo tante polemiche. Decantazione e insieme transizione verso la fine della legislatura, ordinaria o anticipata che sia.

Di un simile volontario si era già fatto nei giorni e nelle scorse settimane qualche nome: il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ma soprattutto il presidente del Senato Pietro Grasso. La cui figura avrebbe potuto consentire anche di applicare al suo governo l’aggettivo “istituzionale”, che fa molto chic nel dibattito politico. Un aggettivo un po’ meno impopolare di “tecnico”, visto il logoramento che gli ha procurato Mario Monti alla fine della scorsa legislatura, succedendo a Silvio Berlusconi.

Ma nelle ultime ore gli avversari di Renzi di nomi da proporre o lanciare, al tempo debito, ne hanno trovato un altro: quello di Romano Prodi. Che il presidente del Consiglio ha ringraziato per il Sì finalmente annunciato alla riforma costituzionale, ma che pure i signori del No hanno ringraziato e ringraziano sia per le critiche rivolte al contenuto della legge sotto procedura referendaria, ch’egli avrebbe voluto migliore, sia per il rimprovero a Renzi di essere stato troppo “divisivo”, o ben poco “inclusivo”, come preferite. Di avere cioè cercato più lo scontro che l’accordo, esasperando il clima politico.

Queste critiche, in effetti, ci sono state. E rispondono al temperamento del professore emiliano, che non è un politico sprovveduto e sa mescolare, quando gli occorre o conviene, il bianco e il nero, il dolce e l’amaro. Prodi sa anche, da buongustaio, che il piatto della vendetta va servito freddo. Lui e i suoi amici non hanno mai nascosto il sospetto che l’allora sindaco di Firenze Renzi, pur con i pochi amici di cui disponeva fra i parlamentari e i delegati regionali, avesse giocato un ruolo nella primavera del 2013 per fare naufragare la candidatura dell’ex presidente del Consiglio al Quirinale. Una candidatura gestita come peggio, francamente, non si poteva dall’allora segretario del partito Pier Luigi Bersani, che ne pagò d’altronde le conseguenze perdendo prima l’incarico o pre-incarico di presidente del Consiglio e  poi la guida del Pd.

Al Quirinale, come si ricorderà, fu rieletto il presidente uscente Giorgio Napolitano, da tutti supplicato, ad eccezione dei grillini, a rimanere al suo posto per non aggravare la crisi istituzionale creatasi con la mancata elezione di entrambi i candidati messi in campo dal maggiore partito italiano: in prima battuta il presidente dello stesso Pd Franco Marini e in seconda battuta Prodi, appunto.

Ma di critiche, sempre servendo freddo il piatto della vendetta, Prodi ne ha rivolte anche a Massimo D’Alema, che ha fatto finta di non accorgersene, furbo com’è. E’ lui, o soprattutto lui, l’uomo al quale Prodi ha inteso riferirsi quando ha denunciato “chi ha strumentalizzato la storia dell’Ulivo”, cioè la storia dell’alleanza che lo portò nel 1996 a Palazzo Chigi, “rivendicando a sé il disegno che aveva contrastato”. Infatti, quando il primo governo Prodi cadde per mano di Bertinotti, nell’autunno del 1998, la proposta sua e del suo vice Walter Veltroni di andare alle elezioni anticipate, per cercare di ottenere una maggioranza senza dipendere dalla sinistra bertinottiana, fu scartata dall’allora segretario del Pds-ex Pci D’Alema. Che preferì insediarsi lui, e subito, a Palazzo Chigi con l’aiuto dell’immaginifico Francesco Cossiga.

Non mi sto inventando nulla, purtroppo. Così andarono davvero le cose, E Romano Prodi ha una memoria d’elefante.

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E’ alla luce del ritorno del professore emiliano sulla scena politica come convinto ma pur sempre sofferto sostenitore referendario della riforma costituzionale e nel tempo stesso, volente o nolente, possibile successore di Renzi a Palazzo Chigi, in caso di vittoria del No, che va letta la disponibilità del presidente del Consiglio in carica a garantire “stabilità” e non “immobilismo”.

L’immobilismo sarebbe rappresentato da un governo transitorio, politico o tecnico, o “tecniticchio”, come lo chiama lo stesso Renzi. L’immobilismo cioè di un governo, magari quello di Prodi, che si dovesse formare solo per approvare una nuova legge elettorale e provvedere, per il resto, in mancanza di una solida maggioranza, alla cosiddetta ordinaria, anzi ordinarissima amministrazione. E ciò nel contesto di una situazione interna e internazionale che di ordinario non ha davvero nulla.

La stabilità invece sarebbe rappresentata da un governo uscito vincente dal referendum o da un altro, sempre di Renzi, la cui maggioranza parlamentare non è stata in gioco nella campagna referendaria, incaricabile perciò, in caso di vittoria del No, di predisporre una nuova legge elettorale ma anche di portare avanti il suo programma per niente esaurito. Si va, in particolare, dall’approvazione definitiva della legge di stabilità al vertice europeo a Roma in primavera, in occasione del sessantesimo anniversario dei trattati comunitari firmati in Campidoglio; dal vertice mondiale del G7, a Catania, alla risoluzione della controversia in corso a Bruxelles sul rispetto degli impegni di solidale distribuzione degli immigrati. Che certamente non cesseranno domenica prossima di arrivare in Italia, e di gravare sulle nostre spalle.

Non parliamo poi delle acque europee in cui dovrà navigare il governo dopo le elezioni francesi e quelle tedesche, che potrebbero determinare cambiamenti importanti negli equilibri comunitari, in connessione peraltro col vento che soffierà dagli Stati Uniti dopo l’insediamento del nuovo presidente Donald Trump.

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Renzi insomma è lì, a Palazzo Chigi, per niente disposto a lasciare la sua postazione, nemmeno in caso di sconfitta referendaria, a meno che il presidente della Repubblica non gli chieda l’immobilità. Ma questa è una cosa che Sergio Mattarella non potrebbe certamente fare, neppure se lo volesse, perché sarebbe contrario allo spirito e alla lettera della Costituzione.

Qualche volta, è vero, non si è tenuto conto di questo nella storia ormai settantennale della Repubblica: per esempio, quando si è fatto ricorso a governi persino dichiaratamente “balneari”, in genere affidati al compianto Giovanni Leone, scomodato appositamente dallo scranno di presidente della Camera, nel 1963 e nel 1968. Ma erano altri tempi. E la stabilità era comunque garantita da un sistema di ben altri partiti.

Un comico in condizioni di vincere dalla mattina alla sera la lotteria del governo non era allora neppure immaginabile, per fortuna. Adesso sì, per sfortuna.

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