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Vi racconto le capriole di Silvio Berlusconi sul governo Gentiloni dopo l’incursione di Vivendi in Mediaset

Silvio Berlusconi

C’è solo l’imbarazzo della scelta fra i gironi dell’Inferno dantesco della politica italiana e di quel che le ruota intorno, compreso purtroppo il giornalismo quando anch’esso decide di vivere di politica anziché di notizie, possibilmente quelle vere, e di rapporti con i lettori.

La sindaca grillina di Roma Virginia Raggi e il sindaco piddino di Milano Beppe Sala – si chiama davvero così o lo chiamano Beppe solo gli amici e i familiari? – hanno mantenuto o conquistato i titoloni di prima pagina per vicende giudiziarie che ormai, per la frequenza con la quale nascono e spesso si sgonfiano, dovrebbero essere trattate con più cautela. Anzi, con cautela, perché questa di solito manca del tutto in queste vicende.

La Raggi protesta contro i magistrati per i controlli sulle sue nomine sapendo di avere alle spalle un partito in buona salute elettorale, molto al di là dei suoi meriti, visto che anch’esso è una polveriera di rancori personali, ambizioni frustrate, incompetenze e velleità programmatiche, non potendo bastare nessuna Zecca del mondo a stampare tutta la moneta che servirebbe a finanziare le loro proposte.

“Beppe” invece deve piegare la testa e sospendersi dalle funzioni a Palazzo Marino, essendo indagato per gli appalti dell’Expo, perché alle spalle ha un partito non molto in salute in questi giorni, dopo la sconfitta referendaria del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, le dimissioni di Matteo Renzi da presidente del Consiglio, la nascita frettolosa di un nuovo governo sulla cui durata nessuno ha il coraggio di scommettere neppure un euro, e i salamelecchi che il Pd, questa volta senza distinzione fra correnti e sottocorrenti, finisce sempre per fare alle toghe, al di là di qualche occasionale polemica.

Vi sembrerà forse eccessiva la mia diffidenza verso la durata del governo del conte Paolo Gentiloni Silverj – due cognomi, per carità – ma non potrei non esserlo quando al massimo, se Renzi ancora da segretario del Pd non riuscirà a creare le condizioni per le elezioni anticipate, esso potrebbe durare poco più di un anno, sino alla scadenza tanto ordinaria quanto stentata di questa legislatura già sfortunata nella numerazione: diciassettesima.

D’altronde, di questo governo fa parte Angelino Alfano. Che da ministro dell’Interno del precedente, dopo la scoppola referendaria di due settimane fa, era pronto ad allestire le urne per non più tardi di febbraio prossimo, procurando l’ira del pur sedatissimo presidente della Repubblica Sergio Mattarella, l’unico a poter scegliere le Camere, e ora che è ministro degli Esteri con Gentiloni si unisce al coro un po’ troppo ipocrita dei soliti costituzionalisti che negano la legittimità di governi cosiddetti a termine. Dei quali invece è disseminata la storia della nostra Repubblica, a cominciare da quelli dichiaratamente “balneari” della buonanima di Giovanni Leone.

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Ho visto con sorpresa che questo governo si è meritato il rispetto del Giornale della famiglia di Silvio Berlusconi per la difesa che, a tutti i livelli, sta facendo di Mediaset dalla scalata del “furbetto francese” di Vivendì.

La sorpresa nasce dal fatto che non più tardi di qualche giorno fa, esattamente martedì 13 dicembre, lo stesso Giornale, diretto dalla stessa persona, il pugnace Alessandro Sallusti, con lo stesso editore naturalmente, annunciava così, letteralmente, a caratteri nerissimi di scatola in prima pagina il parto del Quirinale: “Il GOVERNO NASCE MORTO”, con un “premier precario”. Quello che noi chiamiamo nel gergo professionale “catenaccio”, che è in pratica un sottotitolo, riportava il giudizio di Forza Italia, il partito cioè dell’editore: “Una vergogna senza fine”.

Soltanto quattro giorni dopo questo stesso governo, novello Lazzaro, è risorto, cresciuto e tanto forte, sempre per stare alla prima pagina del Giornale, da porre un decisivo “altolà” al già citato “furbetto francese” che si è messo in testa di scalare il Biscione brianzolo. Ci sono cure – si sa – che fanno miracoli.

A leggere i giornali, questa volta al plurale, fra cronache e retroscena, c’è tutto un traffico senza semafori fra ambasciatori autentici o finti dello stesso Biscione, dei Ministeri interessati e delle agenzie o autorità di controllo per mettere in riga quel “furbetto”. E, visto che si trovano, anche per parlare, indifferentemente, di come fare accordare politicamente Pd e Forza Italia sulla nuova legge elettorale per portare il più rapidamente possibile i cittadini alle urne, o di come garantire al governo il massimo della sopravvivenza, visto che la cura del miracolo l’ha fatto risorgere in quattro giorni.

Ditemi voi, francamente, se questo è uno spettacolo politico o d’altro tipo. E se gli elettori, già sfibrati dalle difficoltà economiche, ed eccitati da quelli che ai tempi di Giuseppe Saragat al Quirinale si chiamavano “gli opposti estremismi”, costituiti oggi a livello per ora, fortunatamente, solo di parole, dai grillini e dai leghisti. Che sono poi, questi ultimi, gli stessi leghisti sui cui palchi sale sorridendo l’ancora – credo – consigliere politico di Berlusconi e governatore della Liguria Giovanni Toti.

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Passo ad un altro girone dell’Inferno della politica italiana e ad un altro miracolo che si reclama dal governo del conte Gentiloni Silverj, questa volta da sinistra, in particolare dal guardasigilli Andrea Orlando, in silenziosa scalata alla segreteria del Pd se e quando Renzi si deciderà a sloggiare anche dal Nazareno.

Il miracolo è quello di modificare in tempo la riforma renziana del mercato del lavoro, chiamata britannicamente Jobs act, per bloccare il conto alla rovescia del referendum, anzi del grappolo di referendum, promosso dalla Cgil di Susanna Camusso. E ciò senza bisogno di farli rinviare con l’espediente, che si ritiene vergognoso, delle elezioni anticipate.

Ma con quale maggioranza, specialmente nel redivivo Senato, il buon Orlando pensa davvero di poter modificare il Jobs act per indurre la Corte Costituzionale ad annullare i tre referendum che fra un mese essa dichiarerà ammissibili obbligando il governo a farli svolgere in una domenica compresa fra il 15 aprile e il 15 giugno? E poi, con quali altre misure il guardasigilli pensa di poter incoraggiare gli investimenti industriali, italiani e stranieri, in un paese in cui un fornaio – scusatemi la semplificazione volgare che però prendo dalle cronache reali – non può licenziare il dipendente che nel frattempo è diventato l’amante della moglie? Non attendo naturalmemte risposte.

Vorrei piuttosto ricordare a certa sinistra scandalizzata, in difesa del povero e bistrattato ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che ha l’aggravante di essere renziano, il contributo ch’essa diede nel 1972 e nel 1987 a rinviare con le elezioni anticipate alcuni referendum cui non si sentiva preparata: nel 1972 quello sul divorzio, spostato di due anni, e nel 1987 quello sulla responsabilità civile dei magistrati. Che fu spostato di soli sette o otto mesi con un’apposita legge voluta dai socialisti come condizione per appoggiare il governo post-elettorale del democristiano Giovanni Goria, mandato in avanscoperta da Ciriaco De Mita per preparagli l’arrivo a Palazzo Chigi. Garantisco ai più giovani, o meno anziani, che è pura cronaca. Non vi è nulla d’inventato.

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