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Il terrorismo nell’Asia Pacifica è una minaccia anche extra-regionale

“Abu Sayyaf e altri gruppi terroristici hanno dichiarato il loro sostegno all’IS. Se i combattenti dello Stato islamico dovessero fuggire dall’Iraq e dalla Siria con quello che sta accadendo ora ad Aleppo (dove però l’IS non c’è, ndr), Mosul e Raqqa, spero che la cooperazione tra i paesi dell’ASEAN possa essere aumentata in quanto vi è la possibilità che [i combattenti dell’IS] possano creare un califfato islamico nella nostra regione” ha detto sabato 17 dicembre Hishammuddin Hussein, ministro della difesa malese, durante il discorso che ha accompagnato la laurea dei cadetti del Royal Military College di Kuala Lumpur. È soltanto l’ultimo di appelli del genere (con cui i politici locali colgono l’occasione di calcare sulle potenziali minacce reali anche per aumentare l’attenzione internazionale).

DIVERSI TERRORISMI

Stefano Felician Beccari è ricercatore di Istrid e Policy Advisor al Parlamento europeo (Bruxelles), ed è coautore di “Eurasia e jihadismo. Guerre ibride sulla Via della Seta”, per cui ha curato il capitolo che tratta i movimenti jihadisti nell’Asia Pacifica. La dimensione terroristica di quest’area è piuttosto ampia: quali sono stati i motivi di questo attecchimento? “Il terrorismo in Asia Pacifica si presenta come un insieme poliedrico e molto diverso – risponde a Formiche.net – perché diversi sono i contesti in cui è maturato e cresciuto. Si può dire che vi sono molti terrorismi perché diverse sono le cause”. Il punto comune però pare essere l’esistenza di diverse fazioni che preferiscono ricorrere più all’uso della forza che a un normale (e pacifico) confronto politico. Si possono fare degli esempi? “Nelle Filippine i movimenti sono più indipendentisti o separatisti, anche con connotazioni religiose; in Thailandia meridionale il terrorismo è una forma di resistenza verso l’oppressione del nord; in Indonesia, Malesia o Bangladesh prevalgono gruppi che sfruttano una lettura integralista del messaggio islamico, e che spesso si abbatte, con violenza, anche contro altri islamici (considerati più tiepidi oppure eretici in senso religioso)”. Il Bangladesh è tristemente noto nella memoria degli italiani per l’efferato attacco del primo luglio, quando all’interno del ristorante Holey Artisan Bakery di Dhaka tra le 24 persone uccise dai terroristi c’erano nove italiani – un paese con cui l’Italia ha forti collegamenti economici. In quell’occasione l’azione fu rivendicata dallo Stato islamico – ai tempi l’IS aveva rivendicato più attacchi in Bangladesh che in Afghanistan e Pakistan.

LE RAGIONI DEL TERRORISMO

Ci sono radici etnico-culturali oggettive, profonde che hanno permesso lo sviluppo del fondamentalismo? “In Bangladesh come altrove nella regione: ci sono elementi comuni, a partire dalla marginalizzazione di certi gruppi etnici, e poi le difficoltà di convogliare le proprie istanze politiche al vertice, discriminazione, marginalizzazione geografica (distanza dai centri di potere) ed economica, sottosviluppo (anche preesistente), e mancanza di politiche specifiche sono alcuni degli elementi principali che favoriscono il proliferare di sigle e cartelli armati e radicali. La dimensione etnica e culturale ovviamente conta molto, soprattutto nei paesi giovani, ovvero con una breve storia nazionale (come Filippine, Indonesia, Malesia…). “In molti casi – prosegue Felician – nel processo di costruzione dell’identità nazionale spesso si è stigmatizzato (e a volte marginalizzato o represso) il diverso, ragione che ha spesso spinto le etnie marginalizzate a imbracciare le armi o comunque cercare di resistere usando la violenza. La non risoluzione di questi problemi alimenta i vari gruppi terroristi e quindi fornisce manovalanza e proseliti per le varie attività armate”.

LA CONFUSIONE DEI PIANI

Qual è la sovrapposizione tra i diversi piani politico, ideologico, religioso, del fenomeno? “La sovrapposizione o confusione dei piani è la norma in Asia Pacifica. Questo permette ai vari gruppi terroristi di intercettare maggior consenso e rafforzare la propria istanza nei confronti sia del potere costituito che verso i propri supporter. Potremmo dire che quello che sembra mancare, è il solo ricorso alla fede”. Chiedo ancora un esempio concreto. “Per dire, uno dei primi gruppi terroristi filippini, il Moro National Liberation Front (MNLF) utilizzava sia la questione etnica (difendere i diritti della popolazione Moro) che quella politica (indipendenza da Manila) che quella ideologica (aveva idee di tipo socialista) che infine, seppur meno, il dato religioso, ovvero simpatizzava per l’Islam, sebbene da posizioni più secolari”. In altre parole, non sembrano esserci gruppi terroristi che combattono esclusivamente per una questione religiosa? “È così, l’uso, ovviamente strumentale, della religione va sempre unito a una rivendicazione politica, sia di piccola portata (ad esempio, l’indipendenza o l’autonomia di una certa porzione di un paese) che di vasti orizzonti (come i gruppi tipo Jemaah Islamiyah che hanno intenzione di creare un Califfato in Asia Pacifica). La religione, da sola, non è l’elemento che spinge all’azione armata i vari gruppi terroristi”. Già nel novembre scorso Rossana Miranda aveva raccontato su Formiche.net di come lo Stato Islamico, secondo uno studio dell’International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence del King’s College di Londra, provasse a conquistare nuovi territori e adepti: nello specifico si parlava della Malesia. La necessità del proselitismo da far attecchire in nuove aree era descritta come legata in gran parte alle defezioni (e diserzioni) in aumento: servivano nuove reclute insomma. E dunque è lo stesso Califfato, il più forte, diffuso e ortodosso tra i gruppi terroristici nel mondo, ad avere molto spesso un fine utilitaristico celato dietro al messaggio ideologico religioso.

LA DIMENSIONE SOVRANAZIONALE

Quando circa un anno fa un gruppo di sostenitori dello Stato islamico ha diffuso il primo video made in Filippine, il giornale australiano Australian parlò di “terrore sulla porta di casa” (i timori di Canberra erano e sono aumentati anche dal fatto che i suoi cacciabombardieri partecipano alle missioni in Siraq contro il Califfato). Il punto è dunque: c’è una dimensione sovranazionale del fondamentalismo dell’Asia Pacifica, e quali possono essere le sue implicazioni regionali o addirittura internazionali? “Sin dalla sua origine  – spiega Felician – il fenomeno terrorista in Asia Pacifica si è presentato almeno come un attore regionale: questo perché la conformazione geografica dell’area (soprattutto nell’Asia del Sud Est) facilitava molto il passaggio da isola a isola e quindi la cross-fertilization fra gruppi terroristi, oltre a favorire contatti tattici, addestramento e rifugi sicuri in caso di operazioni di ricerca da parte di polizia e militari e si sono create delle pericolose interazioni fra gruppi terroristi diversi. Il vero discrimen per la regione, però, è stato il conflitto afghano del 1979-1989: qui la presenza di molti asiatici del sud est nelle file dei mujaheddin ha cementato i rapporti fra molti di questi foreign fighters asiatici ispirando una serie di pericolosi gruppi e cellule clandestine costruite in Asia Pacifica proprio dopo la fine del conflitto”. Non va dimenticato, ricorda Felician, che il primo gruppo a dichiararsi pro-Isis fuori da Siria e Iraq è stato proprio un preesistente gruppo terrorista filippino (era l’agosto 2014). Non più tardi di tre mesi fa la stessa organizzazione ha colpito con un attentato un mercato notturno uccidendo 14 persone. Lo stato guidato dal presidente Rodrigo Duterte, la cui guardia presidenziale stessa è finita sotto attacco, nel sud del paese sta conducendo una lotta armata ai baghdadisti: lo scorso mese alcune postazioni sono state bersagliate dall’artiglieria dell’esercito, uccidendo una dozzina di militanti del Maute Group. I combattenti avevano preso il controllo di un piccolo territorio nella provincia di Lanao del Sur, a Mindanao (isola dove vive la minoranza musulmana), con l’intento di istituire un piccolo califfato.

(Foto: Wikipedia, militari filippini in addestramento)

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