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Ecco chi Matteo Renzi ha spiazzato invocando il Mattarellum

Matteo Renzi

Matteo Renzi si è presentato all’Assemblea Nazionale del Pd spiazzando tutti e confermando di essere paradossalmente migliore quando perde di quando vince. Confermando, perché già nel 2013 egli fece un eccellente discorso dopo avere perduto le primarie per la corsa alla guida del governo, in competizione soprattutto coll’allora segretario Pier Luigi Bersani. Poi continuò a fare il sindaco di Firenze, prendendosi la rivincita dopo un anno scalando la guida del partito, e subito dopo, in verità con qualche forzatura che poteva risparmiarsi, anche quella del governo.

Adesso, perduto il referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale addirittura con una ventina di punti di distacco fra il no e il sì, e assuntasene la responsabilità personale per avere sottovalutato la “politicizzazione” del voto fatta dagli avversari – che hanno voluto bocciare più lui che le modifiche alla Costituzione – Renzi è rimasto “solo” segretario del partito di maggioranza. Ma in quanto tale ha sorpreso tutti gli avversari interni togliendo loro il pretesto di continuare a tenerlo sul banco degli imputati, questa volta con l’accusa di cercare con l’anticipazione del congresso e delle elezioni una rivincita impropria e troppo rischiosa.

Il congresso del Pd – ha annunciato Renzi – si svolgerà alla scadenza ordinaria, cioè verso la fine dell’anno prossimo. Ma il partito dovrà nel frattempo lavorare pancia a terra, con un calendario fitto di appuntamenti organizzativi e programmatici, cominciando fra pochi giorni con la riformulazione dell’ufficio di segreteria e il 21 gennaio con una giornata di mobilitazione di tutti i circoli.

Per le elezioni, messo in sicurezza il paese col nuovo governo presieduto da Paolo Gentiloni, dove i renziani non sono stati certamente emarginati, il segretario del partito ha detto che più importante del “quando” sarà il “come”, cioè con quale legge mandare gli italiani alle urne. E’ evidente che non si potrà andarvi con le regole attuali, non omogenee, che riguardano la Camera e il Senato salvato dal referendum.

Sul percorso della nuova legge elettorale, che non potrà naturalmente prescindere dal verdetto di fine gennaio della Corte Costituzionale sul quella per l’elezione della Camera, in vigore dall’anno scorso e nota come Italicum, Renzi ha ammonito gli altri partiti a non fare “melina”. Com’egli sospetta che facciano, appunto, molti di quelli, a cominciare dai grillini, le cui vicende capitoline li stanno pur mettendo nei guai, e dai leghisti. Che reclamano le elezioni ma in realtà le vorrebbero il più tardi possibile. E magari per superare la scadenza d’autunno, quando i parlamentari di prima elezione cesseranno di rischiare la perdita del vitalizio e dei contributi versati dall’inizio della legislatura.

A questo punto è arrivata l’ultima mossa spiazzante di Renzi. Che ha assunto e indicato come linea del partito il ritorno al sistema elettorale che esordì nel 1994 e che porta il nome latinizzato – Mattarellum – di chi ne fu il relatore: l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Era un sistema per i tre quarti dei seggi parlamentari maggioritario, con collegi uninominali, e per un quarto proporzionale, con listini bloccati. Un sistema che consentì la vittoria sia del centrodestra di Silvio Berlusconi, nel già ricordato 1994 e nel 2001, sia del centrosinistra di Romano Prodi. Poi venne il cosiddetto Porcellum berlusconiano con liste tanto interamente quanto indigeribilmente bloccate.

Il ritorno al Mattarellum, per il quale basterebbe una legge di un solo articolo di due righe, sarebbe una bruttissima sorpresa per chi vorrebbe invece ripristinare il vecchio sistema proporzionale, o quasi. E’ ciò che vorrebbe soprattutto Silvio Berlusconi, al quale Renzi ha comunque augurato, mostrando di non temerne la concorrenza, di riconquistare in tempo la candidabilità col ricorso presentato dai suoi legali alla Corte europea di Strasburgo contro la legge che gliel’ha tolta nel 2013 per sei anni, quindi oltre la scadenza di questa legislatura.

Sarà francamente più difficile adesso alle minoranze del Pd continuare, come però continueranno, la loro interminabile offensiva contro un segretario di cui non hanno digerito l’elezione, considerandolo un intruso più che altro. Minoranze che si sono già messe a cavalcare contro Renzi i referendum in arrivo contro la sua riforma del mercato del lavoro promossi dalla Cgil di Susanna Camusso, come esse hanno cavalcato il referendum costituzionale del 4 dicembre.

Dei referendum della Camusso contro il cosiddetto Jobs act Renzi non ha significativamente parlato. Eppure essi sono lo scoglio contro cui potrebbe infrangersi la legislatura, come ha inutilmente avvertito, fra proteste prevalentemente ipocrite, il ministro renziano del Lavoro Giuliano Poletti.

Quei referendum potranno essere evitati o con lo scioglimento anticipato delle Camere, essendo incompatibili due campagne elettorali di questo tipo sovrapposte, o con modifiche parlamentari alle norme di cui è stata chiesta l’abrogazione, fra le quali quella che disciplina i licenziamenti. Ebbene, queste modifiche per essere il meno possibile un ritorno al passato, perseguito invece dalle sinistre esterne e interne al Pd, potrebbero passare solo con una maggioranza diversa da quella che ha consentito la formazione del governo Gentiloni. Occorrerebbero forse i voti determinanti dei senatori berlusconiani, non bastando probabilmente quelli di Verdini per ora tornati all’opposizione.

La vicenda, come si vede, è ben più complicata di come l’hanno messa quelli che hanno dato del matto o del provocatore al ministro – ripeto, renziano – Giuliano Poletti.

Il dibattito seguito alla relazione del segretario del Pd è stato intenso, per quanto stringato. Particolarmente duro contro le minoranze, e in particolare contro l’ex capogruppo Roberto Speranza, che si è proposto segretario al prossimo congresso come “Davide contro Golia”, è stato il vice presidente della Camera Roberto Giachetti dando loro delle “facce di culo”. Poi ha ripiegato su “facce di bronzo” di fronte alle proteste condivise, sia pure con garbo, dal presidente dell’assemblea Matteo Orfini.

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