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Virginia Raggi, Giuseppe Sala e la magistratura

Virginia Raggi con Beppe Grillo e Luigi Di Maio alla manifestazione M5S per il No al referendum

C’è lo psicodramma di Virginia Raggi in scena a Roma e c’è la commedia di Giuseppe Sala in scena a Milano. Due città, due personaggi e due situazioni sideralmente distanti tra loro. C’è tuttavia un sottile filo nero che unisce i due casi su cui si stanno versando fiumi d’inchiostro. Mi spiego. Discutiamo di parlamenti, elezioni, partiti come se fossero ancora i pilastri della vita politica. Non è più così. In Italia il gioco democratico è ormai regolato da un potere di corpo che trascende il circuito del voto: la magistratura. Insieme ai media e al web, la magistratura è ormai il colosso di una costituzione silenziosa in grado di trasformare le organizzazioni più solide in una cricca di malfattori. Essa, al contrario, resta intoccabile. Pena il rischio che venga messo in questione il tabù della sua autonomia.

È vero, non mancano le accorate considerazioni sulle lungaggini e sulle inefficienze dell’iter giudiziario. Senza però che i loro costi – sociali, economici, umani – varchino mai la soglia del piagnisteo impotente e della – altrettanto inconcludente – vaga proposta di riforma. Se non intervengono le manette, il politico, l’amministratore o il manager sotto accusa entrano nel cono d’ombra di un cammino processuale di cui si perderanno rapidamente le tracce. Salvo tornare – ma molto più marginalmente – sui giornali nel momento della condanna definitiva o, più spesso, del proscioglimento. Ne sanno qualcosa, solo per citare i casi più noti, Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Antonio Bassolino, Vincenzo De Luca e, da ultimi, Ilaria Capua e Ottaviano Del Turco (come si vede, è sbagliato parlare solo di “toghe rosse”).

Di fronte a risultati così deludenti, non sorprende che la magistratura tenda a privilegiare – nella scelta dei suoi obiettivi politici – personalità di maggior calibro istituzionale. Adesso sotto tiro c’è il sindaco di Milano. Del resto, siamo in un’epoca in cui l’apertura di un fascicolo o un avviso di garanzia non si nega a nessuno, soprattutto se aspira a una poltrona di sindaco, di governatore, di ministro. E, mentre pm e giudici azzoppano il potere esecutivo, Consulta, Cassazione e Consiglio di Stato svuotano di fatto il potere legislativo. In questa palude melmosa sguazzano il populismo giudiziario, i verdetti emessi dal tribunale della Rete, la tentazione che la “gente” si faccia giustizia da sola. Questa, oggi, è in buona misura la nostra realtà repubblicana. Confesso che faccio fatica a riconoscerla e ad accettarla.

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