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Che cosa pensa Matteo Renzi della società italiana?

Nella sua relazione all’Assemblea del Pd, Matteo Renzi ha annunciato l’imminente convocazione di una conferenza programmatica del partito per ridefinire il suo profilo ideale e (presumo) per mettere a punto la sua piattaforma elettorale. Confesso che l’appuntamento mi incuriosisce. Fin qui, infatti, non ho mai letto o ascoltato dal gruppo dirigente di Largo del Nazareno (ma forse ero distratto) un’analisi compiuta delle trasformazioni della società italiana nel passaggio di secolo (le kermesse della Leopolda avevano altri obiettivi). È difficile, infatti, correggere i pur riconosciuti errori commessi nella campagna referendaria senza tale analisi, ed è troppo comodo cavarsela attribuendoli semplicemente a meri difetti di comunicazione politica.

Chi scrive è abituato a pensarla così almeno dal 1962, quando ebbe la ventura di assistere ai lavori di un celebre convegno romano dell’Istituto Gramsci sulle nuove tendenze del capitalismo italiano. Esso è rimasto negli annali della sinistra domestica. Forse per la prima volta, infatti, si scoprì che c’era tutta una letteratura economica che non aveva mai avuto cittadinanza nella vulgata marxista del Pci. Si provi ad immaginare lo stupore di un giovane studente comunista – quale io ero allora – di fronte alla relazione di Bruno Trentin, che spaziava dai teorici della “società manageriale” a Keynes e Schumpeter, da Berle e Means alla scuola delle relazioni industriali del Wisconsin, dall’istituzionalismo americano ai pianificatori francesi. La tesi di Trentin era che le forze più moderne della Dc avevano un progetto di modernizzazione del Paese, basato sull’alleanza tra grande impresa e sindacato, con cui bisognava fare i conti. Tesi bollata da Giorgio Amendola come avveniristica. Il compito del movimento operaio – egli ribadì seccamente – era quello di supplire alle carenze di una borghesia nazionale assenteista, lottando contro la rendita e l’arretratezza del Mezzogiorno.

Dopo oltre mezzo secolo, si può dire che Amendola non aveva torto quando affermava che il successo di quella lotta era legato a una sinistra di governo unita. Si può anche dire, però, che Trentin aveva ragione quando sottolineava che la lettura di un capitalismo “straccione” non reggeva alla prova dei fatti. La proposta dell’unità tra Pci e Psi, precisata da Amendola nel 1964, fu immediatamente rigettata. Il confronto sui cambiamenti demografici e dei modi di produzione, avviato da Trentin, fu frettolosamente archiviato.

La morale è che in un partito e più in generale nella lotta politica, si può essere o diventare minoranza quando si sostiene una linea strategica troppo lungimirante per poter essere compresa e accettata dalla maggioranza.

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