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Che cosa manca per le elezioni anticipate

Le doti di equilibrio e responsabilità del nuovo premier, Paolo Gentiloni, universalmente riconosciute, dovrebbero contribuire a smorzare la tensione e garantire al governo una navigazione, per quanto possibile, “centrata”, almeno per il tempo che gli verrà accordato. Ma la spinta verso il voto, emersa un minuto dopo la percezione della netta vittoria del No al referendum, rimane forte e coinvolge un’ampia area di elettori. Difficile districarsi tra le spinte di senso opposto, tra le grida di insofferenza e di protesta e la resistenza allo scioglimento anticipato delle camere, spesso ispirata da saggezza, ma ricondotta dai detrattori a una mera questione di interessi (salvaguardia di poltrone o, peggio, dei vituperati vitalizi!).

Se provassimo a discostarci, per un momento, dalla rissa scomposta e dalle urla di ostilità e di sospetto e ci soffermassimo a riflettere, dovremmo chiederci quale soluzione giovi realmente al Paese e al sistema democratico. Elezioni immediate priverebbero i partiti dei margini temporali per riorganizzarsi, rinnovarsi e ridefinire percorsi e posizioni, alla luce dei clamorosi insuccessi ed errori di questi ultimi anni (e questo riguarda tutti o quasi, dal Pd a Forza Italia, ma anche i 5 Stelle), per disporsi poi ad affrontare le urne offrendo agli elettori un “pacchetto” (in termini di uomini, programmi e, soprattutto, credibilità) che susciti una certa fiducia nella politica e nel futuro. Andare al voto subito, senza dipanare la confusione esistente nelle strategie e nelle posizioni, votare per votare, e poi sia quello che sia, con il rischio di nuove condizioni di ingovernabilità dopo il voto stesso, potrebbe rivelarsi inutile, anzi dannoso. Questo rischio di ingovernabilità, dopo le elezioni, è alimentato, peraltro, dalla permanenza in vigore di due diverse leggi elettorali per le camere, una proporzionale (per il Senato) e l’altra maggioritaria (l’Italicum, per la Camera) che facilmente potrebbero determinare equilibri diversi nei due rami del Parlamento.

Il nostro, non dobbiamo dimenticarlo, è un regime parlamentare e nell’attuale Parlamento una maggioranza c’è. E c’è un governo, ormai insediato e investito della fiducia del Parlamento, in condizione di affrontare gli appuntamenti internazionali imminenti e gli obiettivi programmatici più delicati, lasciando ai partiti i margini per quella pausa di riflessione e di raffreddamento delle polemiche, necessaria a effettuare un doveroso “tagliando”, rispetto a carenze, contraddizioni interne e degenerazioni, ormai insostenibili, se intendono arginare la montante sfiducia e l’astensionismo e presentarsi dignitosamente a quell’appuntamento elettorale tanto invocato e al quale comunque si arriverà entro febbraio del 2018.

E mentre quello stesso governo cercherà di fare il suo vero mestiere, alle camere ai gruppi parlamentari spetterà il difficile compito di trovare una soluzione in ordine alle normative elettorali. Tema che si presenta ora in tutta la sua complessità, essendo stato confermato il bicameralismo perfetto, con base elettorale diversa e il Senato che deve comunque essere eletto “a base regionale”. Sarà necessario individuare criteri che favoriscano la realizzazione di equilibri non troppo dissimili tra le due camere, ai fini di consentire la governabilità, tenendo conto dei “paletti” che la Corte costituzionale fisserà, quando si esprimerà sul ricorso presentato in merito all’Italicum. Deve essere realizzata un’ampia convergenza di forze di maggioranza e di opposizione. Larghe, anzi, possibilmente, larghissime intese si renderanno necessarie, perché la normativa elettorale deve essere condivisa dai contendenti, non deve essere percepita come la regola imposta all’avversario dalla parte temporaneamente più forte.

Riguardo ai partiti, lo scenario di questi giorni offre uno spettacolo di generale logoramento: il Pd è profondamente diviso, con possibili nuovi posizionamenti dei gruppi interni, dopo lo shock provocato dall’esito referendario. E se può ritenersi del tutto naturale che all’interno di un grande partito di massa coesistano diverse “tendenze”, appare però evidente la difficoltà di conciliare opzioni e culture ormai tanto lontane. Se le distanze non verranno ridotte – con una correzione di rotta di Matteo Renzi, o con una scissione che chiarisca più nettamente le rispettive posizioni – sarà sempre più difficile per gli elettori riconoscersi in un’identità troppo incerta. Mentre quella del più temibile concorrente, il Movimento 5 Stelle, è ancora abbastanza chiara, come forza della protesta. Ma i 5 Stelle, in questo momento, sono investiti da altre bufere, ossia dalle polemiche sull’amministrazione capitolina, scatenatesi anche all’interno del movimento.
Al di là delle accuse, delle inchieste e dei sospetti, sui quali non entriamo nel merito per mancanza di adeguata cognizione, lo spettacolo offerto in questi mesi suscita una sensazione di desolante improvvisazione, approssimazione e inadeguata preparazione all’assunzione di una responsabilità così gravosa come quella del governo della Capitale.

E il centrodestra ? E’ destinato realmente a decollare il tentativo di Stefano Parisi, o è solo uno dei tanti segmenti che si muovono in una galassia che tende a polverizzarsi? Quanti sono disposti a riconoscersi nella sua leadership, a dargli fiducia? E se veramente, come si evince da molti indicatori, le sue posizioni fossero inconciliabili con quelle un po’ “estreme” di Matteo Salvini e  Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi e Forza Italia con chi si schiereranno? Accetteranno di mollare tali posizioni per affidarsi all’iniziativa, tendenzialmente centrista, del manager già candidato sindaco a Milano, o prevarrà l’attrazione leghista? E un centrodestra senza Lega e Meloni sarebbe competitivo, nelle condizioni attuali, soprattutto se fosse reintrodotto il Mattarellum, o comunque si votasse con un sistema maggioritario?
Molti ancora i nodi da sciogliere, dunque, tanto sul piano delle leggi elettorali (innanzitutto un quesito di fondo, maggioritario o proporzionale? Questo il vero amletico problema), quanto su quello della crisi dei partiti. Senza affrontarli prima, non credo che le elezioni ci trarrebbero fuori dalle secche, favorendo un salto di qualità e una ripresa costruttiva. La fatica cui è stato chiamato Gentiloni offre dei margini temporali per riqualificare la politica nazionale, prima della grande sfida. Saranno in grado, partiti e leader, di profittarne, vincendo la tentazione un po’ avventurosa delle elezioni immediate ?

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