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Come cambieranno i rapporti dell’America di Trump con Russia e Cina

La discontinuità di Donald Trump verso la Cina riguarda tutti i profili: politici, economici, militari e finanziari. La sua politica estera compie un duplice ribaltamento, nei confronti di Russia e Cina. Il riavvicinamento alla Russia nell’intento di combattere insieme il terrorismo islamico rompe la strategia di isolamento portata avanti da Barak Obama, che aveva puntato ad un progressivo accerchiamento dopo la crisi in Ucraina e l’annessione della Crimea cui sono seguite sanzioni politiche ed economiche.

La caduta del Presidente siriano Assad, difeso dalla Russia, avrebbe determinato la fine della presenza russa nel Mediterraneo. Viene meno anche la strategia del duplice gancio commerciale, attraverso i trattati paralleli transatlantici e transpacifici con gli alleati tradizionali, TTIP e TPP, che avrebbero isolato da una parte la Russia e dall’altra la Cina. La conseguenza negativa era il riavvicinamento di due potenze da sempre diffidenti l’una dell’altra, rafforzandone la cooperazione nell’ambito dei Brics, che si pongono come polo alternativo al G7 occidentale.

L’avvicinamento di Trump alla Russia, nella prospettiva di un nuovo Patto di Yalta per dividere l’Asia mediorientale e centrale e in aree di rispettiva influenza, comporta un primo inciampo alla strategia di espansione della Cina sul piano continentale, con la costruzione di una nuova Via della Seta. Non è più la destabilizzazione di interi territori, dall’Afganistan all’Irak, fino alla Siria, divenuti ingovernabili per via dei conflitti tribali e religiosi, che farà da ostacolo alla penetrazione cinese, ma una spartizione analoga a quella conosciuta in Europa dopo la seconda guerra mondiale.

Il rapporto tra Usa e Cina, così come era stato sviluppato finora, viene messo in discussione da Donald Trump attraverso continui shock comunicativi: dalla telefonata ricevuta dalla Presidente di Taiwan, che tradisce lo storico riconoscimento sul piano internazionale della sola Cina popolare, alla nomina di Peter Navarro, economista ed autore del best seller “Death by China”, a capo del National Trade Council, un nuovo comitato di esperti che lavoreranno per la Casa Bianca. Questa istituzione metterebbe in ombra la storica USITC (United States International Trade Commission), che supporta in materia di commercio internazionale il Congresso e l’Amministrazione: paga forse, la accondiscendenza ai tanti trattati commerciali che hanno trasformato il free trade in una tomba per l’industria e l’occupazione americana. Navarro sostiene che l’apertura alla Cina favorisca le imprese americane, ma non l’America nel lungo termine: è un cavallo di Troia, da cui occorre difendersi prima che sia tropo tardi.

C’è stato un altro episodio: l’impossessamento da parte cinese di una sonda sottomarina dell’US Navy in acque internazionali: Donald Trump ha twittato affermando che quello cinese è un atto senza precedenti e che il drone rubato “se lo possono pure tenere”. E’ stata la risposta a Trump, che a metà novembre aveva annunciato il più grande riarmo navale americano dai tempi di Reagan. Pechino ha voluto dare una indiretta dimostrazione delle sue capacità militari, forse sottovalutate. Il drone verrà restituito, ma intanto la Cina ha dimostrato di non gradire la sorveglianza militare americana, usando a sua volta uno shock comunicativo. Sul piano militare sono le prime scintille.

Ci sono altri due aspetti, il modello di sviluppo e gli equilibri finanziari cinesi, assai precari. Pechino ha conseguito, in tempo di pace, il medesimo profilo di crescita esponenziale e di accumulazione di riserve che caratterizzò l’America durante la prima guerra mondiale. Mentre gli Usa approfittarono della guerra per esportare ogni genere di prodotti, la Cina ha beneficiato dell’enorme divario salariale, di tutele assistenziali ed ambientali. E’ un ciclo al termine: gli investimenti in nuova capacità produttiva destinata all’esportazione sono eccedenti rispetto alla domanda; il livello dei prezzi dei prodotti cinesi ad elevato valore aggiunto è ormai comparabile con quelli della migliore concorrenza internazionale, in quanto il costo del lavoro è un fattore sempre meno rilevante; il risparmio, che colma la distanza tra reddito e consumi, diviene sempre meno solido per via della minore profittabilità degli impieghi nel settore produttivo e degli enormi investimenti nei settori delle abitazioni, delle costruzioni commerciali e degli investimenti degli enti locali.

In Cina, il rapporto debito/pil è passato dal 150% del 2008 al 260% di quest’anno, con una dinamica inarrestabile. Il peso del debito è stato spostato dalle imprese e dalle istituzioni locali allo Stato ed alle famiglie, lasciando inalterato il ritmo complessivo di crescita del debito. Ma si rifinanziano anche i prenditori più deboli, creando il presupposto per un collasso ancora più grave.

Su questi equilibri precari incombe l’aumento dei tassi di sconto americani: già da un anno, il deflusso di capitali all’estero è stato continuo, e verrà accelerato dalla recente decisione della Fed. Le riserve valutarie cinesi si sono già ridotte di 1.000 miliardi di dollari rispetto al picco del 2014. In prospettiva, se non venissero contestualmente aumentati quelli interni cinesi, la fuoriuscita potrebbe essere anche maggiore; ma un aumento dei tassi inciderebbe sulla sostenibilità del debito da parte dei prenditori più deboli. Una svalutazione dello yuan, volta a contrastare il deflusso in luogo di un inasprimento dei tassi, fornirebbe lo spunto a chi in America sostiene che il cambio viene manipolato per favorire l’economia cinese, prendendo le contromisure tariffarie già minacciate.

Gestire in modo equilibrato una crescita impetuosa non è facile per nessuno: nel ’29, l’America cadde sotto il peso della sua stessa ricchezza. Potrebbe accadere anche alla Cina odierna, che Trump ritiene il maggior pericolo per gli Usa. Di certo, non si è messo seduto lungo la riva del fiume ad aspettare.

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