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Cervelli in fuga e ricercatori assunti

Quello dei “cervelli in fuga” è un argomento che periodicamente torna a riempire le pagine dei giornali. L’ultima volta a causa delle dichiarazioni sui giovani emigrati all’estero fatte a dicembre da un ministro. Cervelli in fuga è un’espressione che non mi piace proprio perché suggerisce l’errata impressione che i migliori abbandonino l’Italia lasciando qui quelli che non hanno le carte in regola per trovare lavoro all’estero.
Al contrario, la maggioranza di quelli che oggi lavorano nelle Università, negli Enti di Ricerca e nelle industrie sono stati all’estero dove hanno completato la loro preparazione. Sono quindi “ex-cervelli in fuga” che contribuiscono al successo di questo paese, che lottano quotidianamente contro un sistema poco efficiente, e che preparano giovani ben formati. Con successo, direi, visto che i ricercatori cresciuti in Italia costituiscono la compagine più numerosa di vincitori di finanziamenti ERC, quelli con cui l’Unione Europea premia l’eccellenza nella ricerca. Anche se poi, purtroppo, la maggioranza di questi vincitori ERC decide di sviluppare la propria ricerca in un paese europeo diverso dall’Italia.
E’ meglio quindi ripeterlo: che i giovani (cervelli) decidano di trascorrere un periodo all’estero o di trasferirsi stabilmente in un paese straniero non rappresenta un problema. Direi anzi che è fisiologico, nel senso che è auspicabile che un ricercatore completi la sua crescita all’estero ed è nella natura delle cose che possa decidere di stabilirvisi per sviluppare la sua vita lavorativa ed affettiva. Il problema è che non ci sia un numero equivalente di ricercatori o comunque di giovani stranieri preparati che decidono di venire a lavorare in Italia. In altre parole, il problema è che il sistema Italia non sia attrattivo per i cervelli, non sia un posto dove gli stranieri desiderano venire, se non per turismo. Non è cosi in tutti i settori, ovviamente. Però è quello che, tranne alcune importanti eccezioni, si verifica nella ricerca. Se passate in un’Università o in un Istituto raramente incontrerete uno straniero.
Questo problema non è di oggi. È un fenomeno che è sempre esistito anche se negli ultimi 30 anni è diventato patologico. Non tanto perché è diminuito il numero di ingressi qualificati quanto perché è aumentata in modo vertiginoso la schiera di chi esce e cerca di non tornare. Un fenomeno che si registra anche nelle migrazioni interne, come ha attestato il Rapporto ad esse dedicato di Michele Colucci del Cnr, edito dal Mulino: gli studenti meridionali che frequentano atenei del Nord si fermano nelle regioni dove vanno a studiare, chiamati da imprese locali, e ovviamente si tratta soprattutto dei migliori.
Nonostante le numerose riforme varate negli ultimi trent’anni, nulla di concreto è stato fatto per rendere più attrattivo il sistema della ricerca italiano. Anzi, a giudicare dal rapporto tra cervelli in uscita e in entrata la situazione, come dicevamo, pare peggiorata: il sistema non è evidentemente riuscito a mantenere il passo con l’evoluzione che si è verificata all’estero.
La situazione è ovviamente complessa e metterci mano non è facile. Sicuramente, però, una riforma non può prevedere di contrarre costantemente le risorse investite come è stato fatto dagli anni ‘90 ad oggi. Altrimenti il risultato inevitabile è la morte per asfissia. Al contrario, una riforma dovrebbe prefiggersi il rilancio della Ricerca, nella convinzione che questa può contribuire alla crescita della competitività del paese. La razionalizzazione del sistema deve accompagnasi ad investimenti importanti in termini di risorse finanziarie e umane.
Una riforma che si prefigga di attirare cervelli dall’estero, ad esempio, dovrebbe prevedere: di istituire un’agenzia indipendente dal ministero che gestisca i bandi per i finanziamenti; di dotare l’agenzia di un budget sufficiente per finanziare un numero congruo di progetti selezionati su base competitiva. Penso a qualcosa come 500 milioni l’anno invece dei solo 90 milioni in 3 anni che il MIUR ha messo a bando con il progetto PRIN nel 2016; di prevedere, almeno inizialmente, un fondo per rinnovare la strumentazione ormai obsoleta; di adottare i sistemi europei di reclutamento e inquadramento dei ricercatori. Il reclutamento è uno dei principali strumenti attraverso cui si attua la politica della ricerca. Fissare delle regole e dei criteri certi in questo campo è indispensabile per delineare le strategie di Enti e Università.
In questi giorni si è tenuta la presa di servizio degli 82 ricercatori assunti dal Consiglio Nazionale delle Ricerche in risposta a un decreto del ministro dell’Istruzione, università e ricerca scientifica. Un’opportunità per l’ente ma anche un segnale per i giovani. Ma anche una corsa contro il tempo, visto che il decreto era di febbraio e che i vincitori dovevano venir assunti entro la fine dell’anno. Una selezione di 82 ricercatori su più di 4.000 domande.
E’ stato scelto pertanto di condurre i concorsi secondo dei principi innovativi. Al contrario di quanto avveniva precedentemente, i posti non sono stati assegnati ai singoli Istituti in cui è articolata l’attività del CNR, bensì su aree tematiche considerate prioritarie, lasciando poi scegliere ai vincitori in quale Istituto sviluppare le proprie ricerche. In questo modo sono stati ottenuti una serie di risultati. Ad esempio è stata eliminata la lunga trattativa per stabilire i criteri in base ai quali “premiare” con un posto da ricercatore un istituto piuttosto che un altro. E sono state evitate le diatribe interne agli Istituti stessi su quali gruppi avevano maggior “diritto” al posto. In altre parole, è stata eliminata una delle principali dinamiche che portano ai concorsi pre-confezionati. Questo contribuisce a spiegare l’elevato numero di candidati. Al contempo, sono state chiaramente definite le aree tematiche considerate prioritarie dall’ente, una scelta strategica.
Esistono ancora problemi anche con questo tipo di selezione, prima di tutto il fatto di prevedere un tema scritto quando invece il curriculum del candidato e il colloquio dovrebbero essere gli unici criteri di selezione, ma si è trattato comunque di un segno che cambiare è possibile, se ce n’è la volontà.

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