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Chi contrasta (e chi asseconda) la frenesia di Matteo Renzi

Alla vigilia del suo ritorno a Roma, dopo la pausa impostasi per le feste di fine anno ma soprattutto per smaltire la botta presa il mese scorso con la bocciatura referendaria della riforma costituzionale, si sprecano i consigli a Matteo Renzi a rinunciare al progetto delle elezioni anticipate entro l’11 giugno. Ma possibilmente già in aprile, come qualche amico vorrebbe per consentirgli di partecipare come presidente del Consiglio, a fine maggio, al G7 di Taormina. Una cosa, questa, che appare improbabile perché presuppone un’approvazione quasi in quattro e quattr’otto della nuova legge elettorale reclamata dal presidente della Repubblica.

Gli inviti a rinunciare alle elezioni politiche nascono dalla paura che i nemici, soprattutto quelli interni di partito, hanno ancora di Renzi, dall’interesse di Silvio Berlusconi di guadagnare tempo, nella speranza che la Corte di Strasburgo gli restituisca la candidabilità oggi preclusagli sino al 2019, ben oltre quindi la scadenza ordinaria della legislatura, nel 2018, e infine dalla voglia degli avversari, questa volta anche esterni al partito, di dargli la botta finale con la bocciatura referendaria anche della sua riforma del mercato del lavoro. Contro la quale potrebbero convergere disinvoltamente, come sulla riforma costituzionale, le opposizioni sia di sinistra che di destra.

Non mancano, in verità, anche amici di Renzi, attuali alleati nella gestione del Pd, come Dario Franceschini e seguaci, che temono le elezioni perché in caso di vittoria del segretario perderebbero potere contrattuale nei suoi riguardi. E in caso di sconfitta dovrebbero contendere un’eredità difficilissima, da cui potrebbero rimanere semplicemente schiacciati.

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Peccato che tutti questi ragionamenti o calcoli di convenienza prescindano dagli interessi del Paese. La fretta elettorale di Renzi viene vista solo come una fastidiosa propaggine della sua bulimia di potere, vera o presunta che sia, pur punita nel referendum costituzionale. Può darsi, sia chiaro, che non manchi questo elemento negativo, ma resta anche il fatto che, pur se si riuscisse ad allontanare l’appuntamento con le urne per il rinnovo delle Camere, sino a farle arrivare alla scadenza ordinaria, non cesserebbe per questo la campagna elettorale ormai già in corso.

Ebbene, più sarà lunga questa campagna elettorale, più risulterà dannosa non a questo o a quel partito, a questa o a quell’ambizione, ma al paese nel suo complesso. E a quella governabilità o stabilità di cui molti si riempiono la bocca non sapendo che cosa sia in realtà, tanto sono abituati a considerarla solo un surrogato dei propri interessi, per giunta variabili.

Nessuno prova ad immaginare che cosa potrà essere in pendenza di una campagna elettorale, e relative esasperazioni, la preparazione in autunno della prossima legge ex finanziaria, e relative trattative con l’Unione Europea. Dalla quale certamente né Beppe GrilloMatteo Salvini saranno riusciti nel frattempo a portarci fuori, ammesso e non concesso che ciò fosse per l’Italia l’affare che loro sognano.

Lo stesso presidente della Repubblica ha in qualche modo riconosciuto, se non addirittura legittimato questa campagna elettorale praticamente cominciata con la bocciatura referendaria della riforma più significativa prodotta non tanto dal governo Renzi quanto dalla legislatura uscita dalle urne nel 2013, parlando il 20 dicembre scorso di “orizzonte di elezioni” davanti alle autorità salite al Quirinale per lo scambio tradizionale degli auguri di fine anno. Eppure è proprio sull’aiuto di Sergio Mattarella, l’unico che possa sciogliere anticipatamente le Camere, che si conta per evitare o ritardare l’evento.

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La rianimazione di questa legislatura tramortita dal referendum costituzionale sarebbe un altro contributo alla impopolarità della politica anche perché nessuno toglierebbe dalla testa degli elettori l’idea, poco importa se a torto o a ragione, che il ritardo serva ad assicurare ai numerosi deputati e senatori di prima nomina, fra i quali tutti i grillini, la maturazione nel prossimo autunno del diritto al vitalizio, sia pure da riscuotere solo a 65 anni di età, perdendo in caso contrario anche i contributi previdenziali versati dall’inizio della legislatura.

Il buon Emanuele Macaluso ha espresso più volte stupore, anzi scandalo all’idea che pur di ottenere le elezioni anticipate il segretario del Pd faccia dimettere il governo in carica, quasi un monocolore piddino, o addirittura lo faccia sfiduciare dai suoi gruppi parlamentari. Egli evoca come precedente sciagurato il governo monocolore democristiano di Amintore Fanfani del 1987, voluto dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita per allontanare Bettino Craxi da Palazzo Chigi dopo quattro anni di buon lavoro: un governo monocolore cui, pur potendo disporre dell’appoggio annunciato dai socialisti per evitare le elezioni anticipate perseguite da De Mita, i democristiani negarono la fiducia astenendosi.

Il mio amico Emanuele ha ragione a denunciare quel paradosso, accettato dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, democristiano pure lui, come Fanfani e De Mita. Ma ha torto quando omette di ricordare che quel passaggio parlamentare fu possibile solo per il consenso accordato, sui banchi dell’opposizione, dal suo partito, il Pci, allora guidato da Alessandro Natta. Che non levò una sola parola di protesta, pur di liberarsi anche lui di una legislatura che aveva il torto di essere ormai targata Craxi.

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Qualche parola infine per esprimere la mia preoccupazione per non avere trovato sulla sua Repubblica il solito intervento domenicale di Eugenio Scalfari, al quale -credetemi- non sono soltanto abituato ma affezionato da più di 40 anni trovandovi sempre spunti utilissimi di riflessione, anche nelle frequenti occasioni di dissenso, specie negli anni del cosiddetto craxismo, cui egli era praticamente ostile, ma di cui ebbe tanto insolitamente quanto lodevolmente rispetto quando finì nelle circostanze drammatiche che tutti sappiamo.

Direttore, fai presto a rimetterti e a tornare. Questo glaciale inizio d’anno ci ha già troppo penalizzati con la perdita di vecchi saggi come l’ex ministro della Pubblica Istruzione Tullio Di Mauro, di cui non rimpiangeremo mai abbastanza la cultura e l’arguzia, l’ex presidente socialista del Portogallo Mario Soares, autore della famosa rivoluzione dei garofani dopo il lungo regime salazariano, e l’amico Lelio Lagorio. Che fu uno degli uomini di punta della rivoluzione dei garofani nella sinistra italiana, fedelissimo di Bettino Craxi, che lo chiamava anche lui scherzosamente “il Granduca di Toscana”. Egli fu, fra l’altro, ostinato partecipe come ministro della Difesa di quel riarmo missilistico della Nato in Europa che portò pacificamente negli anni Ottanta al crollo dell’Unione Sovietica, senza che fosse versata una sola goccia di sangue. Addio, Lelio.

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