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Paolo Gentiloni e Matteo Renzi, analogie e differenze

Lo stile è l’uomo, ripeteva Buffon. Affermazione ovvia e soprattutto vera, come chiunque ha potuto sperimentare: le style c’est l’homme même. Vale anche per i politici: dallo stile di Silvio Berlusconi, Beppe Grillo e Matteo Salvini abbiamo imparato molto più che dai loro programmi politici.

Nel 2016, poi, la massima del grande naturalista ha trovato una conferma nella successione dei due premier, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni.

Due caratteri davvero diversi. Quale fosse lo stile di Renzi lo abbiamo visto ogni giorno nei due anni e mezzo di governo. Le sue indubbie qualità furono apprezzate dagli italiani, ma poi finirono per essere viste come difetti: l’attivismo si era tramutato in protagonismo, il decisionismo in vane promesse da “Paese di Bengodi”, la personalizzazione in autoincensamento. Sino all’errore fatale: trasformare un referendum sulla costituzione in una scelta del suo progetto politico (l’aut Caesar aut nihil era diventato: “O mi votate o me ne vado”). Inevitabile la sconfitta e apprezzabili le dimissioni, giuste anche se non dovute.

Quale sia lo stile di Gentiloni è apparso con evidenza nella conferenza stampa di fine anno. I mass-media, in gran parte ostili a entrambi, hanno salutato la successione di Gentiloni come “governo ombra, fotocopia, inghippo”. Ora hanno cambiato tecnica: Renzi (scrivono) esibizionista e aggressivo, narcisista e incantatore; Gentiloni grigio e opaco, posapiano e furbastro. La verità è che sono diversi, ma ciò non esclude la continuità che è stato merito del nuovo premier di avere sottolineato: io non sono né una copia di Renzi, né il contrario di Renzi, sono il premier dopo Renzi e sono in continuità con lui, anche se continuità non significa identità.

Gentiloni continuerà dunque, anche se per breve tempo, il progetto riformistico di Renzi, del quale ha sottolineato, con lealtà, i risultati positivi. Ma con uno stile suo proprio, che tutti hanno visto e molti apprezzato. Del resto egli ci ha tenuto a sottolineare uno dei cardini del regime democratico: il premier non è “il” progetto di governo, ma è “nel” progetto di governo. Non lo cava dal cappello come un prestidigitatore, ma lo definisce, in riferimento alle esigenze della situazione sociale, insieme con gli altri membri del governo, rispetto ai quali, secondo la nostra Costituzione, non è un “dominus”, ma un “primus inter pares”, che “promuove e coordina”, non determina l’attività del governo (art. 95).

Dalle risposte, brevi e anche problematiche, date da Gentiloni ai giornalisti sono emerse la sue qualità. Certo, sullo sfondo, grava il pericolo che possano divenire difetti come può accadere a chiunque. Anzitutto la moderazione, che nasce dalla consapevolezza che ogni problema ha molte dimensioni, che non si possono ignorare, senza assolutizzarne nessuna come utopia, anche se con l’inevitabile rischio di cadere nell’indecisione. Ancora la pacata ragionevolezza, dato che accettare la democrazia significa riconoscere una convivenza pluralistica e anche conflittuale di idee e progetti politici diversi, una ragionevolezza attenta a non cadere nel relativismo e nel volontarismo.

E non meno la concretezza, consapevole della complessità dei problemi sociali, delle forze e degli ostacoli presenti e attivi in ogni situazione, anche se occorre tenersi lontani dall’opportunismo. Infine la correttezza, Gentiloni ha evitato polemiche, frasi a effetto, punzecchiature, la sua esposizione, convinta del proprio punto di vista, rimane dentro un rispetto delle diverse proposte, che evita di tradursi in indifferentismo.

Diceva Aristotele che le tre principali forme politiche (monarchia, aristocrazia, democrazia) possono essere tutte valide a seconda dei luoghi e momenti storici diversi. Ma solo se sapranno evitare di cadere in quegli eccessi, che le condurrebbero a rovina (tirannide, oligarchia, demagogia). Solo la razionalità sa mantenerle nel giusto mezzo.

Ciascun politico ha le sue qualità e il suo temperamento, che lo rendono idoneo a reggere lo Stato in un certo momento. Gli eccessi in perfetta buona fede e valida intenzione civile di Matteo Renzi sono serviti a scaldare l’ambiente politico, proponendo un salto rispetto alla routine della vecchia partitocrazia gestita dagli insostituibili mandarini. Ma involontariamente hanno anche favorito la reazione dei distruttori di professione, che in nome di un usurpato populismo hanno manipolato il popolo per indurlo al rifiuto di quelle stesse scelte elettorali, che aveva liberamente fatto nel 2013.

Abbiamo alle spalle anni di rissa ininterrotta, di offese volgari e squallide, che esimevano i porno-urlatori da ogni discorso sulle proposte e sui progetti. C’è da augurarsi che il clima di pacatezza e ragionevolezza indicato da Gentiloni e sottolineato da Mattarella possa avere la prevalenza, nella vita parlamentare e nelle campagne elettorali, nei media e nei social network. In tanto la democrazia può vantare una superiorità sugli altri regimi politici in quanto non è lotta continua ma competizione (cum-petere, cercare insieme). Ciascun leader vuole vincere, ma, dopo, il suo vero ruolo non ha come oggetto il potere ma il servizio.

(Articolo pubblicato su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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