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Ecco come e perché la Vigilanza Bce chiude un occhio su derivati e titoli illiquidi

In Europa non c’è analista o operatore di mercato che non conosca i dati sulle sofferenze delle banche, in particolare quelle italiane. Questo è comprensibile, perché i non performing loans sono il principale punto di debolezza degli istituti del Paese, come ha mostrato il caso Mps. Più sorprendente è che in Europa non si guardi allo stesso modo (e spesso non si guardi affatto) agli altri attivi di bilancio, tipo i titoli illiquidi, che sono potenzialmente anche più rischiosi dei crediti deteriorati, come si è visto nel fallimento di Lehman Brothers.

Le sofferenze sono in parte recuperabili nel tempo: secondo Banca d’Italia, i loro valori contabili netti sono in media corretti, considerando il tempo necessario per il loro recupero (che invece deprime il valore di una vendita immediata sul mercato). Inoltre sui crediti deteriorati c’è maggiore trasparenza per l’attenzione che mercati e supervisori dedicano alla materia. Sugli asset di livello 3, così chiamati perché sono i più illiquidi e non è possibile per loro definire un prezzo, le informazioni sono invece scarse e poco diffuse.

L’Eba e la Vigilanza Bce hanno avuto un ruolo nell’orientare le percezioni dei mercati, considerando che le regole, le valutazioni sui bilanci (stress test e Aqr) e le azioni di supervisione hanno penalizzato i prestiti rispetto ai titoli illiquidi. In particolare, Francoforte chiede piani di smaltimento rapidi delle sofferenze, che causano vendite a prezzi più bassi di quelli di bilancio e di conseguenza provocano ammanchi di capitale, che a loro volta possono creare timori non sempre del tutto giustificati sul settore bancario di un Paese. Non risultano azioni simili da parte della Bce sulle banche d’investimento con alta esposizione verso i titoli di livello 3. Anzi, a volte proprio la difficoltà di comprendere questi attivi rende complicata la supervisione.

I rischi dei titoli illiquidi e dei derivati sembrano un tabù per i vigilanti europei: non sono citati quasi mai nei documenti ufficiali o nei discorsi pubblici. Stride la differenza rispetto alle frequenti osservazioni sui rischi dei titoli di Stato, che sono invece molto liquidi, meno rischiosi e sostenuti dagli acquisti della stessa Bce. Per questi motivi è difficile non pensare che l’azione di vigilanza sia influenzata dal peso politico di Germania e Francia.

Non è certo un caso che in Europa solo Banca d’Italia e Abi parlino di asset illiquidi, considerando anche che sono titoli poco presenti nel Paese. “Per i gruppi italiani l’incidenza delle attività di livello 3 sul capitale è di oltre il 40% inferiore al dato medio dei gruppi di Germania, Francia e Regno Unito”, ha osservato una recente analisi dell’Abi. “I risultati dello studio suggeriscono che il regolatore dovrebbe valutare i rischi impliciti nell’incerta valutazione delle attività di livello 3 con la stessa (se non maggiore) attenzione che manifesta rispetto all’analisi della qualità del credito”.

Deutsche Bank, per esempio, ha titoli di livello 3 per il 60% del capitale Cet1 e per il 2% degli asset totali (dati Snl e Scope): in valore nominale assoluto sono pari a 31,5 miliardi, mentre le sofferenze nette di Mps  sono di 10,2 miliardi (27,7 miliardi quelle lorde, ossia senza considerare gli accantonamenti già effettuati).

Tra gli asset illiquidi di Deutsche ci sono 6,7 miliardi di titoli di trading (corporate bond strutturati o in mercati emergenti illiquidi oppure cartolarizzazioni strutturate), 9,4 miliardi di derivati basati su uno o più parametri non osservabili (cdo, cds, valute, opzioni), 6,1 miliardi di altri asset di trading (levereged loan o mutui illiquidi) e 4,8 miliardi di asset disponibili per la vendita (npl e real estate). Le maggiori banche francesi (tranne il Crédit Agricole) hanno attivi di livello 3 tra il 20% e il 40% del capitale Cet1. Intesa  e Unicredit  sono sotto il 10% e le spagnole Santander e Bbva hanno valori ancora più bassi. I titoli illiquidi sono molto presenti anche fuori dall’Eurozona e in particolare nel Regno Unito (Barclays è al 90% del Cet1), in Svizzera (Credit Suisse all’80%) e nei Paesi nordici.

(Articolo pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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