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Cosa dicono Obama e gli obamiani dell’atto di Trump sugli immigrati

Obama

Barack Obama s’è sentito in dovere di parlare contro quello che ritiene un “inizio maldestro di questa nuova amministrazione”. La dichiarazione è affidata a un comunicato presentato ai giornalisti americani dal suo portavoce Kevin Lewis e gira tutto intorno a quello che per semplicità giornalistica viene definito “Muslim Ban” (anche se in effetti, tecnicamente, non è un ban contro i musulmani tout court): l’executive order sull’immigrazione e sugli ingressi negli Stati Uniti.

TRUMP LICENZIA LA MINISTRO DELLA GIUSTIZIA

Nello stesso giorno, il presidente Donald Trump ha destituito Sanny Yates, procuratore generale (il ministro della Giustizia) facente funzione in attesa dell’approvazione congressuale del nominato Jeff Sessions. Yates, che era la vice di Loretta Lynch e dunque un residuo dell’amministrazione Obama, aveva annunciato che il dipartimento da lei guidato non avrebbe difeso l’ordine trumpiano dai tanti ricorsi legali annunciati in questi giorni (il primo esposto secondo Associated Press è arrivato a Washington proprio lunedì). Un tradimento, secondo Trump. C’è stata un’enorme mobilitazione, gli avvocati hanno lavorato gratuitamente, anche seduti in terra negli aeroporti, per trovare le vie giurisprudenziali di contrasto al decreto: è “questo che ci aspettiamo quando i valori americani sono in gioco”, ha fatto sapere Obama, tenendo una linea più morbida rispetto agli altri democratici che hanno attaccato pesantemente Trump, e ricordando anche le varie manifestazioni di protesta organizzate dai cittadini.

IL DEBUNKING DELL’EX CAPO DEL DIPARTIMENTO DI STATO

In un articolo pubblicato su Foreign Policy Jon Finer, capo dello staff di John Kerry al dipartimento di Stato americano, ha fatto un debuking (ovviamente interessato) sulle due righe nevralgiche dello statement con cui Trump ha dichiarato che il suo ordine esecutivo sull’immigrazione non è troppo diverso dalle politiche adottate da Obama. Le similitudini sono, secondo Trump, concentrate su due punti: il primo, fu l’amministrazione Obama a creare quella lista di sette paesi per i quali cittadini adesso Trump ha vietato l’ingresso negli Stati Uniti; secondo, l’interruzione del programma di accoglienza dei rifugiati (per tutti stop di 120 giorni, per i siriani a tempo indeterminato) è stata una decisione già presa nel 2011.

LA VICENDA DEL 2011

Si parte da qui (la questione è stata già trattata su Formiche.net, analizzando un po’ di numeri e differenze, ma l’argomento è centrale e va approfondito ancora). Finer scrive che quella del 2011 fu una decisione dettata dalle contingenze e riservata soltanto all’Iraq. Si scoprì che due iracheni entrati negli Stati Uniti (in Kentucky, per la precisione) con un programma che va sotto il nome di Special Immigrant Visas (SIVs), creato dal Congresso per facilitare la strade d’ingresso a coloro che hanno collaborato con gli americani durante l’occupazione irachena, nonostante fossero stati sottoposti ai processi di “vetting”, verifica, eramo in contatto con i al Qaeda. Ossia, erano radicalizzati e questo era sfuggito ai controlli (l’Iraq era già la patria dei qaedisti che furono i prodromi dell’attuale Stato islamico, ma Finer ricorda che quei due furono gli unici iracheni arrestati per terrorismo). Davanti al fatto, Obama chiese che le procedure di certificazione dei SIVs venissero riviste e durante quei sei mesi in pratica bloccò i visti dall’Iraq. Finer dice che continuarono ad arrivare rifugiati, “non era un ban!”, ma in un altro debunking fatto dal Washington Post è riportato che in quel lasso di tempo le procedure di ingresso dei rifugiati iracheni rallentarono al limite minimo: entravano sì persone, ma in una quantità piuttosto basse. Il massimo dirigente sotto Kerry aggiunge che comunque quella revisione fu condotta di concerto con tutte le agenzie e i dipartimenti governativi coinvolti, e non fu una decisione verticistica come l’ordine esecutivo di Trump, che ha messo davanti alle strutture sottoposte un “fait accompli“. Forse qui sta il punto: Trump ha usato un messaggio forte da “uomo forte”, che piace al suo elettorato, ma che ha destabilizzato la situazione e ha magnetizzato le critiche di mezzo mondo; Obama ai tempi scelse la via soft degli ingranaggi governativi e di quella vicenda del 2011 se non fosse stato per qualche bravo giornalista americano oggi, non se ne sarebbe saputo quasi niente (o sarebbe stata completamente dimenticata).

LA LISTA

Secondo aspetto: la lista. Finer dice che è nata come esclusione da un vecchio progetto che si chiama Visa Waiver Program (VWP), una legge che consente ai cittadini di 38 paesi alleati di viaggiare negli Stati Uniti senza ottenere i visti (con reciprocità per gli americani). Quei paesi (Iran, Siria, Iraq, Yemen, Libia, Somalia, Sudan) furono considerati a rischio terrorismo dal dicembre del 2015, dopo l’attentato compiuto da due simpatizzanti dello Stato islamico a San Bernardino, in California, con una discussione iniziata già appena dopo i fatti di Parigi; il senso: come facciamo a fidarci di un belga VWP, per esempio, se fu proprio il belga Abdelhamid Abaaoud a guidare i terroristi nella capitale francese dopo essere rientrato dalla Siria? Ma non era un divieto di ingresso a chiunque, spiega: toglievamo solo la possibilità di entrare senza visto a chi proveniva da quelle sette nazioni. Però anche in questo caso è noto, per esempio, che se si arrivava dalla Siria senza fare richiesta di asilo politico, oppure si era stati in Siria con retroattività fino al 2011, per entrare in America c’era una strada complicata che molto spesso finiva in un rifiuto. Ma anche in questo caso il messaggio uscito al pubblico era diverso, meno aggressivo e più contingentato ai fatti, alla sicurezza, e dunque più potabile.

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