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Lo Yemen revoca agli Stati Uniti il permesso di operazioni speciali a terra

Yemen

Alcuni funzionari americani hanno spifferato al New York Times che il governo yemenita avrebbe deciso di revocare agli Stat Uniti il permesso di procedere con operazioni speciali a terra sul proprio territorio (anche se al momento non ci sono annunci ufficiali). La decisione, secondo le fonti raccolte dai giornalisti David Sanger ed Eric Schmitt che firmano il pezzo uscito martedì, sarebbe collegata ai danni collaterali (leggasi: vittime civili) riportati dopo il blitz dei commandos americani avvenuto domenica 29 gennaio. Mercoledì l’Associated Press ha riportato per prima la notizia di una dichiarazione con cui Abdul-Malik al-Mekhlafi, il ministro degli Esteri yemenita, ha smentito le dichiarazioni del Nyt, e una  fonte del Washington Post ha detto che era soltanto in corso una revisione e non un blocco delle autorizzazioni.

LA DECISIONE

L’operazione è stata problematica (“un fallimento” secondo il senatore John McCain che martedì ha partecipato a un briefing riservato), da non definirsi proprio “un grande successo” come la Casa Bianca ripete (non più tardi di martedì, per bocca del portavoce in odore di licenziamento Sean Spicer). Secondo quanto ufficialmente diffuso dall’amministrazione Trump l’obiettivo del blitz non sarebbe stato nessun leader qaedista, ma si è trattato di “un raid per la raccolta di intelligence” (dice Spicer) che ci ha dato molte informazioni importanti. Aqap, la sigla con cui è conosciuta la filiale yemenita di al Qaeda, è il più importante degli hotspot globali dell’organizzazione terroristica perché a loro la guida suprema Ayman al Zawahiri ha affidato l’incarico di compire gli attentati in giro per il mondo (un esempio: i due terroristi che attaccarono la redazione di Charlie Hebdo a Parigi due anni fa erano stati addestrati in Yemen). Lo Yemen nel corso del tempo è diventato una riserva di caccia contro al Qaeda, centinaia gli operativi e i leader eliminati dai programmi speciali dell’amministrazione Obama: anche questo raid, secondo alcune ricostruzioni sarebbe stato studiato da tempo, ma mancavano ancora dettagli di intelligence e per questo un avvocato del Pentagono aveva posto il veto; era troppo rischioso. Poi, quattro giorni prima dell’azione, Trump era seduto a cena con alcuni dei suoi top advisor militari (forse c’erano il segretario alla Difesa, il capo delle Forze armate e i potentissimi consiglieri Jared Kushner e Stephen Bannon, volti riflessivi e istintivi dell’inner circle trumpiano) e ha deciso di dare semaforo verde, bypassando il protocollo formale.

L’OBIETTIVO

Ci sono informazioni diverse da quelle diffuse ufficialmente sul vero motivo della missione. Sospetti: il Pentagono dice di aver ottenuto importanti informazioni di intelligence, e porta a testimonianza un video in cui si mostra come produrre bombe con il nitrato di ammonio (Aqap ha bombaroli sopraffini), ma le immagini sono vecchissime e circolano in rete da anni: scuse e chiarimenti aggiungono confusione alla vicenda. Funzionari militari e di intelligence hanno detto martedì alla NBC che c’era un obiettivo segreto (lo era, ora non lo è più perché anche il target di una missione sensibile è finito in mezzo alle tante fughe di notizie che stanno caratterizzando questa prima fase della nuova amministrazione americana). Il raid doveva uccidere o catturare il capo di Aqap, Qassim al Rimi, considerato uno dei più pericolosi terroristi in circolazione. Al Rimi domenica ha diffuso un messaggio audio in cui irrideva gli americani che non erano riusciti a prenderlo (“The fool at the White House” dice il testo irriverente tradotto, lo scemo alla Casa Bianca), e dunque si può supporre che sul luogo dell’attacco ci fosse davvero? Negano i portavoce militari. A vantaggio delle speculazioni: tra i bambini rimasti uccisi si pensa esserci la figlia di 8 anni di Anwar al Awlaki, leader qaedista, yemenita con doppio passaporto americano ucciso nel 2011 con un attacco aereo, considerato un riferimento del jihad globale i cui discorsi vengono ripresi anche dagli esponenti dello Stato islamico, nonostante la faida jihadista. Era un “quartier generale” dice la nota del Pentagono: possibile dunque fosse frequentato dal capo?

IL BLITZ

Resta comunque che qualcosa è andato storto: un Navy Seal del Devgru (sentite il gruppo chiamato anche Team Six, sono quelli che hanno Osama Bin Laden, ndr) è rimasto ucciso nei 50 minuti di conflitto a fuoco. Gli specialisti americani, divisi in due team partiti da una nave anfibia al largo delle coste yemenite (con loro anche una decina di commandos emiratini), sono atterrati nell’area ostile di notte, puntando sul vantaggio tattico dei visori e della tecnologia, ma i militanti li stavano aspettando. Forse si erano insospettiti dal ronzare dei droni nelle ore precedenti. Quando gli Osprey che li stavano trasportando hanno approcciato la superficie i qaedisti gli hanno scatenato contro una pioggia di fuoco. Uno dei velivoli da 75 milioni di dollari era talmente danneggiato che è stato costretto a un atterraggio di emergenza (circostanza che riporta alla mente il blitz contro Bin Laden); successivamente è stato deliberatamente distrutto da un bombardamento per non renderlo materiale di propaganda. Nel fuoco incrociato sono rimasti a terra una dozzina di jihadisti, ma con loro altrettanti civili. Foto, non verificabili, di bambini uccisi, hanno fatto da sfondo ai messaggi propagandistici dei combattenti islamisti.

IL CONTESTO POLITICO

Una situazione difficile da sostenere per il governo yemenita, già praticamente in bancarotta di consensi, deflagrato dal conflitto separatista, ridotto al minimo: per questo la decisione della revoca; già in Yemen c’erano state compagne di protesta contro le vittime civili fatti dagli americani durante queste missioni, e già due anni fa uno studio della Reuters raccontava che questi bombardamenti rischiavano di avvicinare la popolazione ai militanti. Sullo sfondo però potrebbe esserci anche un nodo politico: lo Yemen è uno di quei paesi inseriti nel ban su ingressi e immigrazioni fortemente voluto da Trump e ora in mano alla decisione di una corte di Appello di San Francisco. Gli esperti avevano avvisato che l’ordine di Trump avrebbe potuto mettere in pericolo le collaborazioni con questi paesi (l‘ultimo in ordine cronologico l’ex capo della Cia Michael Hayden): stavolta forse Sanaa ha scelto di non passarci sopra (il ministro degli Esteri ha definito questi raid “esecuzioni extragiudiziali”) e di non sostenere l’imbarazzo pubblico per i morti innocenti, con una decisione che probabilmente ha anche il valore del contrappasso. Se effettivamente lo Yemen vieterà questo genere di missioni agli americani, Trump si troverà davanti un primo importante ostacolo alla sua dichiarata volontà di aumentare le operazioni contro il terrorismo (nei giorni scorsi la Casa Bianca per confermare la bontà del blitz faceva trapelare che missioni del genere sarebbero aumentate, anche attraverso meccanismi di svincolo con cui rendere al Commander in Chief mani più libere, ancora maggiore potere decisionale ai livelli intermedi per migliorare la velocità di azione e pare si stia pensando di allargare la caccia ai ribelli sciiti Houthi e si carichi di armi con cui l’Iran li foraggia).

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