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Il piano di Erdogan con il referendum costituzionale in una Turchia lacerata

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Erdogan ha firmato il testo della riforma costituzionale, approvato dal Parlamento lo scorso 21 gennaio e che verrà sottoposto a referendum il prossimo 16 aprile. Se approvata, cambieranno 18 articoli della legge madre dello Stato turco e in modo sostanziale. La Turchia passerà da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale, con super poteri per il capo dello Stato garantiti dalla legge. Il Parlamento non potrà più contestare la nomina dei ministri, il Cms turco passerà da 22 a 13 membri, ed Erdogan, se rieletto, potrà rimanere al potere fino al 2029.

In realtà la vera notizia è un’altra. Erdogan ha convocato il referendum anche se tutti i sondaggi gli danno irrimediabilmente contro e non di poco. Tutte le ricerche pubblicate nei giorni scorsi danno il no vincitore con una percentuale che varia dal 46,6% al 54%. Il 9% degli elettori del suo partito, l’Akp, è ancora indeciso e non parliamo dei suoi alleati, quelli del Partito Nazionalista Mhp, dove il 15% è indeciso e il 50% è orientato per il no.

Qualcuno, adesso, potrebbe chiedersi perché mai Erdogan abbia firmato il testo, sapendo che la strada è tutta in salita e che potrebbe essere una Caporetto. La risposta è molto semplice: non aveva alternative.

Se Erdogan avesse rinunciato alla consultazione referendaria, sarebbe suonata come l’ammissione di una possibile sconfitta e la dimostrazione che la sua era di stra potere era finita non solo nel Paese, ma soprattutto nel suo partito. Da settimane, infatti, nell’Akp aleggiava il malumore per questo referendum, Tanto che il primo ministro, Binali Yildirim, ha fatto non poca fatica per tenere compattato il partito e convincerlo che quello del 16 aprile potrebbe essere un successo. In molti speravano, non senza grande convinzione, conoscendolo, che Erdogan facesse un passo indietro.

Invece il presidente ha deciso di andare al voto e giocarsi il tutto e per tutto, facendo leva sull’emergenza terroristica che attanaglia il Paese ormai da mesi. Da giorni molti quotidiani titolano che allineati sul fronte del No ci sono anche il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, organizzazione terrorista-separatista, e Fethullah Gulen, l’eminenza grigia della politica turca in auto esilio negli Usa, un tempo alleato di Erdogan e oggi suo maggiore nemico, voteranno contro il referendum.

La verità è che da sempre l’ipotesi di un presidenzialismo forte ai turchi non è mai piaciuta. Ma se procastina il voto, sa che le cose possono solo peggiorare. I cambi sull’euro e sul dollaro sono fuori controllo da tempo. L’economia nel Paese sta attraversando un momento di stasi e nei prossimi mesi inizierà a peggiorare. E proprio sulla prosperità del Paese Erdogan ha fondato gran parte della sua credibilità politica.

Il presidente ha deciso di tentare il colpaccio, forte anche del fatto che il popolo turco in gran parte lo appoggia ancora perché non vede alternative effettivamente praticabili. Se gli riesce, allora la Turchia gli consegnerà definitivamente le chiavi del suo futuro. Se dovesse andare male, il presidente si ritroverà messo in discussione, ma in un Paese dove nessuno è al momento disposto a schierarsi contro di lui.

Chi lo conosce, sa che Erdogan alterna l’animo pragmatico a quello del giocatore d’azzardo e che si pone un problema per volta. Adesso è il momento di osare.

Il 16 aprile si gioca il tutto e per tutto. A quello che verrà dopo ci penserà dal 17.

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